Doti, donne sacerdoti, sparate: cui prodest?
L’unica idea di Enrico Letta è quella di imitare Matteo Salvini…
Qualcuno del Pd che conserva un residuo della vecchia cultura politica (Cuperlo, Orfini, Orlando) svegli il chierico Letta, prima che tra un viaggio a Lourdes e una campanella da aggiungere alla già ricca collezione, conduca un partito malandato al sacrificio estremo. Si sente un papa straniero e, dopo una illuminazione a tinte rosa che lo ha rapito nel santuario, invoca il sacerdozio femminile, lo ius soli, il voto ai 16enni, la dote ai diciottenni (la necessaria tassa di successione, al di fuori di ogni cornice sistemica, non serve per investimenti produttivi o beni pubblici ma per un nuovo bonus). Quanto è efficace l’agire di un moderato che intende portare l’immaginazione (quella di Lourdes) al potere sfiorando competenze di un concilio vaticano?
Entrato al governo 25 anni fa e diventato anche presidente del Consiglio non ha mai evocato le riforme simboliche con le quali, oggi che è in maggioranza con Salvini, cerca di stupire il pubblico attraverso effetti speciali ben sapendo che le possibilità di farle approvare sono nulle. Al capitano che va in giro con il rosario, Letta propone uno scambio tra legge elettorale e dote ai maggiorenni. Ma quanto alla risposta del sovranista non confida nella razionalità politica, scommette piuttosto nell’effetto di Lourdes anche sul cuore del rude leader padano. Qualcosa che sconfina nel rapimento mistico ha anche la pretesa lettiana di conquistare il voto dei gilet gialli, che incendiano le città per rivendicare il pieno del carburante, insieme a quello della generazione Greta, che teme che il petrolio porti alla fine del mondo. La conversione del Pd alla logica effimera della politica scritta con il flusso della narrazione, con annunci a pioggia senza conflitti effettivi per strappare le innovazioni, potrebbe avere degli spiacevoli effetti preterintenzionali.
Con i suoi riti magici per assicurare una dote alla gioventù che non prolifica (ci manca solo una tassa sul celibato), e con le sue esortazioni per il potere rosa contro la “maschile prepotenza”, Letta potrebbe semplicemente tirare la volata a colei che fu il primo ministro della Gioventù in età repubblicana e che al momento è la sola leader donna di un partito. La campagna di qualche anno fa per una donna al Quirinale regalò a Emma Bonino un eccezionale 9 per cento alle europee. Oggi la predestinata a incassare gli effetti dello strumentale inseguimento del rosa, senza alcuna analisi dei poteri e del ritardo italiano che ha un’occupazione femminile di 15 punti inferiore alla media europea, ha ben altre credenze ideologiche e la posta in gioco è più drammatica, non riguarda l’omaggio a una protagonista delle battaglie per le libertà civili.
Per chi suona la campanella Letta? Arruolato per rendere più solida la posizione di Draghi, ogni giorno il segretario del Pd inventa una proposta impossibile per combinare guai di gestione proprio al capo dell’esecutivo. Il suo cacciavite puntato contro Salvini in realtà finisce sempre per graffiare Draghi. Questo gioco alla destabilizzazione si spiega perché l’allievo di Andreatta, non potendo prospettare la rifondazione di un partito del lavoro con una moderna critica del capitalismo, è costretto a esibire maschere finto radicali per essere accettato da ciò che rimane del popolo della sinistra. Con la felpa di Open arms, con l’annuncio di riforme che non rientrano in alcuna agenda reale delle istituzioni, Letta ottiene qualche titolo e soddisfatto della copertura mediatica si sdraia sulla politica dell’immagine cui non segue mai una battaglia.
Anche Draghi avrebbe bisogno di una sinistra politica e sociale forte per precisare le riforme economiche (non per regalare una “dote” ma per combattere la disoccupazione giovanile che è al 26 per cento per gli inferiori ai 34 anni) e definire la riprogettazione dello spazio pubblico. Deve accontentarsi di un antico democristiano che, per le esigenze di piccole strategie della comunicazione, è costretto ad acciuffare una qualche visibilità con la provocazione, l’amplificazione del programma scritto secondo i dettami superiori della voce interiore di Lourdes. Il problema in fondo non è che Letta si è radicalizzato e vuole l’impossibile (anche nella tassa di successione segue una classica ricetta liberale che solo Di Maio reputa “illiberale”), ma che nella sua agenda tracciata secondo le esigenze del politico declinato sub specie comunicazione egli simula, cioè ricorre non a un pensiero, a una analisi ma si avvale del chiacchiericcio sia pure teologicamente ispirato.
A furia di prepararsi alla sfida con Salvini, proponendosi come il suo quotidiano antagonista, Letta non percepisce che il capitano è usurato e che in ascesa è una signora in nero che senza una classe politica, un radicamento, un programma, una organizzazione sfonda con una certa facilità nel gradimento dei ceti subalterni. Il disegno di Letta di giocare all’anti Salvini in una fase che mostra l’ascesa di Meloni rivela l’inadeguatezza della strategia che postula il disincantamento del Pd sull’efficacia riformatrice del governo Draghi. Un esperimento, certo complesso da gestire, che sempre più degrada il capitano a comparsa grottesca paradossalmente viene vissuto dal Pd come una provocazione o secondo la definizione di Travaglio “un governo dei ricchi”.
La doppiezza cui è oggi costretto Salvini non è per nulla un suo punto di forza. È invece un segnale di difficoltà. Se indica la volontà di opposizione (a cosa?), il leader leghista riesuma lo spettro del Papeete che però è il simbolo delle sue grandi disavventure e ragione del sospetto su di lui che cova nelle aziende. Se invece esalta la volontà di incidere nel governo come uomo della concretezza realizzativa non può fare altro che giocare all’anticipo rispetto a decisioni autonome di Draghi che non sono state indicate dal capitano che così viene scoperto nelle vesti del propagandista stregone.
Salvini arranca, perché è intrappolato da un governo di modernizzazione del modello capitalista (per i loro limiti, il sindacato e la sinistra sono semplice oggetto di una rivoluzione passiva nel segno della indispensabile razionalizzazione). Non ha più lucidità neppure tattica, e come potrebbe? Neanche l’uscita ultima di mandare Draghi al Quirinale è una mossa politicamente accorta. Mostra semplicemente che Draghi è percepito come l’origine dei suoi attuali guai. E in questa intuizione immediata Salvini non si inganna affatto. Il governo Draghi smonta la “bestia” leghista della manipolazione e minaccia il capitano di strappargli i galloni ora che la sua conquista del Sud si rivela roba effimera gestita con personaggi compromettenti.
Solo gli avversari che gioiscono nel denunciare la normalità di un super Mario così identico per loro in certi abusi procedurali al rimpianto avvocato del popolo, possono aiutare il capitano a schivare le reti che lo imprigionano. Se l’operazione governo di tregua riesce, non spetta a Salvini incassare il plusvalore politico. Si tratta infatti di un ritorno alle pratiche del buon governo, che un tempo si sarebbe chiamato borghese-modernizzatore, il quale ristabilendo l’ordine delle priorità (crescita, governo pubblico) destruttura l’arnese della propaganda securitaria e rileva il tratto infantile delle battaglie navali. Figurarsi se all’incasso andrà la signora in nero. Ora che la situazione di emergenza ha ripristinato il principio di realtà, che la destra ha sempre capovolto con maschere fittizie, proprio il Pd, che avrebbe da guadagnarne da un ritorno alla concretezza del rapporto sociale, si converte alla simulazione, alla comunicazione deviante. Misteri sacri che si spiegano solo con l’ineffabile incantamento di Lourdes.
© Riproduzione riservata