«La Cina non cede, anche se le converrebbe farlo». Marco Lupis, giornalista, inviato di guerra ed esperto di Estremo Oriente, prossimo in libreria con un nuovo libro “Ai confini del mondo, storie da isole lontane” (Il Mulino), non nasconde le difficoltà, condivise da tutti gli analisti, nello star dietro a uno scenario che cambia ormai ogni ora. «Siamo allo scontro aperto, ormai è chiaro. Non che questi ultimi rilanci reciproci sui dazi fossero necessari per capirlo».

Perché la Cina non cede, Lupis?
«In termini di convenienza, Pechino non può permettersi di abbandonare il mercato Usa. Tuttavia, in questo momento l’ideologia impedisce questo pragmatismo. È il paradosso di Xi Jinping, che riceve i miliardari a Palazzo, ma poi rafforza la centralità del Partito. L’ideologia è da sempre la vera rovina della Cina, che, quando si fa condizionare dal dogma, fa scelte sbagliate».

E se fossero le ripercussioni economiche a fargli cambiare idea?
«Qui entriamo nella sfera del consenso. Terreno difficile da definire».

Tu sei un esperto di «ombre cinesi», per riprendere il titolo di un tuo altro libro. Ci puoi dire se anche a Pechino funziona il meccanismo per cui se un governo non soddisfa le esigenze della popolazione rischia il collo?
«In Cina la legittimità del Partito è basata sulla sua capacità di assicurare ai cittadini quella cosiddetta moderata prosperità. Ovvero un costante miglioramento delle condizioni economiche. C’è il confucianesimo che contribuisce a riconoscere il potere a chi lo detiene. I diritti umani non hanno una presa così diffusa tra i cittadini. Se però li tocchi sul portafoglio, potrebbe esserci una crisi di consenso, dalle conseguenze devastanti».

Quali sarebbero le criticità economiche più rischiose?
«Lo si vede con la crisi immobiliare in corso. Molti cittadini si erano comprati la casa, poi i cantieri sono stati chiusi. Le autorità locali, da sempre enormemente indebitate, si sono trovate senza i fondi per riaprirli. Ci sono state piccole manifestazioni di piazza. Di cui non si è saputo nulla qui da noi. Alla fine è dovuto intervenire il governo centrale per rimettere ordine».

Questo è uno scenario che potrebbe ripresentarsi?
«È difficile prevederlo. La Cina è la fabbrica del mondo. Non può rinunciare ai ricchi mercati occidentali. Per primo quello Usa. D’altra parte, il governo guarda sempre lontano. Sta da tempo lavorando per incrementare i consumi interni, nell’ottica appunto di diffondere un tenore di vita migliore anche nella Cina interna».

In pratica un mercato domestico alternativo a noi. Può funzionare?
«Ci vuole tempo. La Cina che conosciamo di Pechino, Hong Kong e Shanghai è molto lontana da quella Cina centrale, ancora povera, dove il potere d’acquisto è inesistente. Un ecosistema dove le imprese non potrebbero sopravvivere».

È la globalizzazione che resiste: la Cina non può fare a meno di noi. E viceversa.
«È esattamente questo che a Washington non vogliono capire. O forse fanno finta. Mentre tutto il mondo vende un sacco di roba agli americani, gli americani ci vendono poche cose. Certo, ci sono l’Harley-Davidson, il Whisky, il gas. Ma si tratta sempre o di prodotti di nicchia, o di commodity. In entrambi casi, il consumatore generalista è tagliato fuori».

Trump vuole interrompere questo meccanismo.
«Trump si sta muovendo in maniera schizofrenica con l’unico obiettivo di andare contro la Cina. Ha iniziato con la tregua a Gaza, poi in Ucraina – nessuna delle due raggiunta – ora i dazi a tutto il mondo. E ancora: l’impegno a tirare a sé la Russia per allontanarla da Pechino, le mire sulla Groenlandia e Panama. Tutte mosse strumentali di aggressione a Pechino».

Ci sta riuscendo?
«Non si sa. Al momento il tutto è costato 10mila miliardi di dollari bruciati sui mercati in tre giorni».

E i Brics? O meglio, il resto del mondo non può essere un’alternativa al mercato Usa?
«Prima dei Brics, penserei all’Unione europea. Se Trump dovesse continuare a lanciare insulti come sta facendo, potrebbe esserci qualcuno nell’Ue disposto a guardare altrove. Per sostituire un mercato con un altro serve del tempo, ma se la situazione non dovesse modificarsi, si potrebbero aprire nuove strade».

Ma la nostra Via della Seta non è andata benissimo.
«Non sto pensando a quella. Dico però che la Cina non può che vedere di buon occhio gli insulti di Trump nei nostri confronti. L’Europa è confusa. E potrebbe allontanarsi dal suo alleato storico, per spingersi così tra le braccia di Pechino».

In questo caso chi sarebbe la prima a cedere?
«Direi la Germania. Per la sua tradizionale presenza in Estremo Oriente e per le relazioni impostate già da Angela Merkel».

Lupis, chiudiamo con un paradosso: Trump ha imposto i dazi anche a Taiwan. Nemico storico di Pechino e interlocutore privilegiato dell’industria tecnologica Usa.
«Taiwan è nei guai. Una nazione che non è veramente tale. Piccola. Troppo vicina alla Cina, ma alla quale non può certo chiedere aiuto. Non mi stupirei se nel disegno trumpiano fosse sacrificata proprio per vincere la sfida cinese».