La mostra a Milano
L’utopia di Carlo Aymonino, architetto e comunista

È assai raro che nel documentare in modo puntuale il lavoro di un architetto, fosse anche il più sommo e premiato, i suoi disegni, gli esecutivi, gli scritti teorici, già, è davvero cosa ardua fare sì che questo diorama susciti una sensazione che vada oltre l’odore, le nuance di ordinario rapidograph, e non perché nel lavoro del progettista manchi per definizione il flatus artistico, semmai per una crudele sensazione di lontana Utopia cartacea, propria dell’idea costruttiva, architettonica, ingegneristica; quasi che gli architetti, un attimo prima di esistere con i loro manufatti edilizi innalzati infine da muratori e carpentieri, lavorino all’Invisibile.
Incredibilmente, questa sensazione di opacità percepita, davvero impropriamente, dai profani non appare invece attraversando i documenti visivi del lavoro di Carlo Aymonino (1926-2010), un intellettuale ancor prima che un progettista, lo stesso che ha vissuto, come notano i curatori della sua mostra, il secondo Novecento sia come organizzatore culturale sia nell’idea della ricostruzione legata al dopoguerra, così nel clima neorealista, fino a tradursi nell’impegno per il Mezzogiorno (quartiere Spine Bianche a Matera) e ancora nelle periferie (Quartiere Gallaratese a Milano), ma anche nell’esperienza militante nelle fila del Partito comunista italiano a Roma. Su questo camminamento che si giunge, colmi di stupore, ai lavori, come dire, “familiari”, ovvero destinati all’intrattenimento della propria prole, come dono affettivo.
La mostra, “Carlo Aymonino fedeltà al tradimento” a cura di Manuel Orazi, catalogo Electa, ha luogo alla Triennale di Milano (fino al 20 di agosto), e appare, da questo punto di vista, davvero esemplare. Racchiudendo un tesoretto di suoi disegni, che, fra molto altro, tradendo ogni il valore d’uso “servile”, proprio dell’elaborato specialistico, sembrano rimandare al disegno libero del radical design, alle esperienze più singolari, appunto, dell’utopia architettonica. Gli oli dei primi anni Cinquanta mostrano inequivocabilmente un’impronta guttusiana, e presto si affiancano a ogni altro genere di narrazione grafica che sembra esplorare il rapporto tra città e territorio, le riflessioni sull’origine e lo sviluppo della urbe moderna, e ancora il senso della piazza, il concetto stesso di ciò che abitualmente assimiliamo a ciò che è nominato quale “pedonale”, ergo alla pedonalizzazione, o magari al camminamento aereo.
Ancora, nel percorso espositivo, c’è da fare caso ai disegni sulla Napoli sotterranea che mostrano, di più, trasferiscono l’idea progettuale architettonica in un dominio metafisico che, fra le molte sue suggestioni, rimette in moto la memoria cartografica, già, le mappe di Giovan Battista Nolli, le cui “nuove carte di Roma” del 1748 ancora adesso figurano nelle portinerie cittadine. Sarebbe però opportuno che tutto ciò che Aymonino offre non fosse guardato con l’occhio della specialistica, delle minuzie tecniche, della noia catastale, al contrario serva a mobilitare ogni possibile suggestione, compresa, tornando a Guttuso, il ricordo di una celebre tela dedicata alla Resistenza a Roma con i suoi covi segreti: alla parete la pianta topografica cittadina con gli obiettivi segnati in rosso, possibili prossimi attentati contro i nazifascisti.
Carlo Aymonino è stato, fra molto altro, rettore dello Iuav di Venezia; del suo “Complesso abitativo Monte Amiata”. Aldo Rossi ha detto: «Questo dinosauro rosso, con una rigida e lunga coda bianca, sorge ormai terribilmente sopra la pianura». L’università come “microcosmo metodologico”, tentativo di dare ordine alle cose, alle case, anche nel senso e nell’indirizzo del Sublime, così da interrompere la tendenza al caos autarchico, nella sua forma deteriore, ovvero che anima la progettazione ordinaria, la città dei “geometri”, sia detto senza nulla togliere alla dignità di questo ruolo. Le linee essenziali dei suoi edifici, non vorremmo dire una sciocchezza, sembrano ricordare ora la severità scabra del Razionalismo ora al bisogno di “silenzio” di un Adolf Loos. Fino ai disegni dove le citazioni pittoriche si accampano improvvise, quasi che San Sebastiano o la deposizione di Rosso Fiorentino siano in procinto di giungere perfino nel paesaggio architettonico, scendendo a mostrarsi nella Piazza.
La metafisica, si è detto. Meglio: «Pensare per figure», ecco, sì, pensare per immagini, icone, come direbbe Albert Camus a proposito della filosofia, fino a realizzare “Il giornalino di Aldo e Livia”, “Il giornalino di Silvia e Snoopy”, “Il giornalino di Adriano”, e collage e diari di viaggio o manifesti, come nel caso della Festa dell’Unità del 1949, così al tempo dei Comitati dei partigiani per la pace. I “giornalini”, dicevamo. Segnati dall’affetto paterno e insieme didattico, un dono ai suoi ragazzi, figli, lì si accampa di tutto: c’è il Duomo di Milano e c’è la tessera del Partito comunista italiano per il 1961, e poi fiori a margine, e il racconto dei cantastorie e dei viaggi sulla Luna, così che sembra di ritrovare lo spirito del “Pioniere” di Gianni Rodari… Il pennarello intanto ha preso il posto del rapidograph, in un racconto che mostra i memorabilia dell’Urbe.
Come in un gioco dell’oca: alla casella 69 leggiamo: «Il capitalismo è morente fermo un giro», alla casella 39: «Stalin fa avanzare il socialismo nel mondo fai due tiri». Alla casella 13: «Porta fortuna Luciana diventa comunista e va al numero 20 pure lei». In un altro schizzo ancora, Aymonino rende omaggio a Le Corbusier nell’anniversario della morte, nel frattempo il Marat di David, uscito dalla sua vasca da bagno, appare, insieme ai Beatles, a fare visita al racconto infinito, ora e sempre lontano dai gelidi fogli lucidi dell’ordinario quotidiano architettonico che mostrano invece altri suoi colleghi, meno dotati del dono dell’incanto figurale. Sulla sua tomba ha voluto fosse scritto: “Architetto e comunista”
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