Sono trascorsi trent’anni da un evento storico epocale che ha cambiato il volto del mondo: la caduta del muro di Berlino. Dopo quella data sono mutati tutti i parametri che avevano contraddistinto i tratti fondamentali della geopolitica del pianeta. Non è crollato solo il comunismo ma l’insieme del modo di fare politica e il modo di essere di tutti i principali protagonisti che si erano definiti in contrapposizione, o come scudo, al comunismo. Ma la cosa più stravagante è che, a sinistra, ci sono voluti una trentina d’anni per rendersene pienamente conto. Le ultime vicende europee e mondiali ci hanno messo brutalmente dinnanzi al tema dell’eclissi della sinistra su scala mondiale. Una eclissi che può essere letta in filigrana con la crisi del comunismo e il dilagare della globalizzazione a direzione neoliberista, e che ha lasciato sul terreno l’insorgere di nuove tendenze populiste. Il dramma, quindi, viene da lontano, dalla «fine politica» del novecento, che solo per comodità esplicativa farò risalire dalla caduta del muro di Berlino. Sono stati travolti tutti i parametri della vecchia politica mettendo in crisi sia la sinistra riformista sia quella radicale. Uno dei motivi di tale crisi, anche se non esaustivo, è che si è ritardato, come avevamo indicato fin dai primi momenti della «svolta» dell’89, a comprendere che occorreva andare oltre le vecchie esperienze comuniste e socialdemocratiche. La vicenda europea, purtroppo con esiti tutt’altro che soddisfacenti, si è incaricata di dare ragione a quella invocazione. Se si va al di là di analisi sporadiche che si muovono dentro l’orizzonte ristretto del politicismo e dell’episodico, non si può non vedere che la portata generale di quel crollo sta nel passaggio epocale da un mondo governato dal confronto tra due blocchi contrapposti al dilagare sul pianeta della globalizzazione, con le sue luci e le sue ombre, e il tramonto delle vecchie ideologie. Sotto questo profilo vale la pena di analizzare il caso italiano come paradigma di un destino mondiale. Si può dire che in Italia si è avuto il più spettacolare superamento di tutti gli algoritmi della politica del passato. Il panorama politico è del tutto irriconoscibile: l’ondata di fondo ha sradicato tutte le forze che hanno le loro radici nel novecento, siano esse socialiste, centriste o moderate di centro-destra. Questo spiega lo spaesamento di cui soffrono molti cittadini. In questo destino comune di tutta la sinistra, ci sono responsabilità diverse tra riformismo moderato e sinistrismo alternativo. Il primo si è, in modo evidente, impantanato dentro una vocazione alla governabilità che, per quanto nobile, gli ha fatto smarrire, malgrado le ormai sempre più opache politiche redistributive, la propria vocazione sociale, fino a forme di subalternità politico-culturale verso il neoliberismo. Il secondo si è attardato in una visione dimidiata della società, sostanzialmente divisa da frontiere invalicabili, da campi opposti, che si manifestano, per alcuni, sul mero terreno economico-sociale, o, per altri, su quello etico-morale. Con l’aggravante di assumere troppo spesso come obiettivo principale quello di far perdere la sinistra moderata, in mancanza della capacità di intercettare l’onda di protesta che volge verso il populismo.
È mancata una nozione più attenta delle trasversalità indotte dalle inedite sfide mondiali che hanno reso obsolete le vecchie forme in cui si esprimevano le politiche del welfare del secolo socialdemocratico. Il vuoto lasciato dalle sinistre è stato riempito dal populismo. E questo perché la lettura meramente finanziaria da parte del pensiero economico neoliberista è stata funzionale alle politiche di austerità volte a non intaccare l’attuale modello e a far pagare la crisi alla classe media e ai lavoratori. Ne è scaturito che, per la debolezza critica di un riformismo minimalista, ci siamo trovati davanti ad uno scherzo della storia che sfiora il paradosso: la risposta infatti è venuta da una rivolta populista e di destra, facilitata dalla corresponsabilità di gran parte della sinistra nell’accettazione, a volte compartecipe e a volte silente, del paradigma neoliberista. Paradosso doloroso e irridente perché una crisi favorita dai poteri forti invece di trovare uno sbocco a sinistra ha infiammato una protesta populista contro le «caste» che finisce per rimettere tutto il potere nelle mani della vera «casta», quella dei principali responsabili della crisi. Così è avvenuto che il frutto avvelenato e irridente della generica e fuorviante categoria della lotta alla «casta» sia stata l’elezione di un miliardario xenofobo, sessista e reazionario alla testa della più grande potenza del mondo. Tuttavia seguire il tragitto di questa eclissi limitandosi agli eventi degli ultimi anni mi sembra particolarmente sterile. L’anniversario della caduta del muro di Berlino ci induce a riprendere il discorso dal cosiddetto crollo del comunismo, per individuarne le radici, leggendolo in filigrana con il decorso della socialdemocrazia e dell’insieme delle sinistre nel contesto di una spiegazione del male oscuro delle permanenti divisioni che dilaniano dagli albori il fronte progressista. Molti sono stati i tentativi di nuovo inizio in giro per l’Europa, e in Italia è stato sperimentato il più significativo. Ma tutti hanno avuto un difetto fondamentale, quello di non aver elaborato il lutto con la necessaria determinazione. Anche in Italia malgrado le notevoli innovazioni che io non mancherò di enumerare puntigliosamente, la fiamma dei mali del passato, per quanto sia stata decisamente soffocata, ha continuato a covare sotto la cenere, lasciando sul terreno la retorica nostalgica del bel tempo perduto. Il seme dell’innovazione però non può essere gettato sul terreno sterile dell’eterno presente; ha bisogno del concime, e il concime è per sua natura il passato. Non si può uscire dal cerchio virtuoso che coinvolge passato, presente e futuro in un unico destino. Nel trattare la storia come presente ho ritenuto che riandare alle luci e alle ombre del movimento della sinistra che ha dominato la storia del novecento, sia pure in un continuo dialogo con l’insieme delle sinistre, fosse uno dei modi più efficaci di affrontare la crisi generale da cui ho preso le mosse. Infatti non c’è forza di progresso che, in sintonia o in contrapposizione, non si sia definita in rapporto al comunismo. Per questo la tendenza a collocare quella vicenda, in tutti i suoi aspetti, anche quelli più recenti, nel binario morto della storia offusca, a mio avviso, la comprensione globale degli eventi. Certo, se ne è parlato molto e bene nel corso delle celebrazioni del centenario della rivoluzione d’Ottobre, ma senza cogliere con sufficiente chiarezza il rapporto con la complessiva vicenda delle sinistre. Sotto questo profilo, sono convinto che la vicenda del comunismo italiano rimanga un punto privilegiato di osservazione. Non a caso in Italia si è verificato l’unico evento di fuoriuscita consapevole e volontaria da quella esperienza. Alludo, senza ulteriori giri di parole, alla svolta della Bolognina, che, come si sa, è strettamente collegata alla caduta del muro. Nel render conto delle ragioni di quella svolta mi sono sforzato di collocarla nel cuore delle vittorie e delle sconfitte del movimento comunista internazionale, e della situazione complessiva delle sinistre, sottraendola il più possibile da una dimensione meramente provinciale. Nello stesso tempo cercherò di prendere di petto la critica più insidiosa, quella di una inesorabile e generica perdita di identità, collegata alla sua identificazione in un atto di coraggio, una sorta di giorno da leone, a cui sarebbe mancata una chiara cultura politica. Nel corso di questa analisi cercherò di contestare ogni visione riduttiva del significato degli eventi dell’89, sia per ciò che riguarda l’amarcord del paradiso perduto sia per ciò che concerne la base stessa della cultura politica della svolta di allora e del futuro nuovo inizio.
Occorre, dopo tanti anni, comprendere che a cadere non è stato solo il «socialismo reale». Abbassatesi le polveri sollevate da quel crollo, è affiorato il vuoto problematico di un «socialismo ideale» che si era definito in contrasto con quello reale. Ma prima di entrare nel merito, intendo soffermarmi su due considerazioni preliminari. La prima è che nella disperante percezione, che contiene indubbi elementi di verità, di una perdita di identità culturale è presente una sorta di paragone ellittico rispetto ad una perduta identità del tutto cristallina ed omogenea, che non è mai esistita. Nel corso della storia del comunismo si sono affacciate sul proscenio non solo identità molto diverse tra di loro, ma anche clamorosamente contraddittorie. Lo stesso vale per la storia della socialdemocrazia, che spetta ad altri percorrere dall’interno. Le suggestioni di una inossidabile identità perduta sono ampiamente contraddette dalle concrete vicende storiche. Per ciò che concerne l’identità comunista, mi è sufficiente sottolineare che diverse culture comuniste sono cresciute in molteplici centri intellettuali, nelle elaborazioni di grandi personalità eterodosse, in contributi di notevole rilievo come quelli di Gramsci e Rosa Luxemburg, attraverso differenti esperienze storiche in Oriente e in Occidente. Le idee di comunismo di Trockij, Bucharin e Stalin erano, in parte, sensibilmente lontane tra loro, così come quelle di Brežnev e Berlinguer. Anche in Italia, e tra gli stessi comunisti, la percezione degli ideali del socialismo è stata molto diversa prima e dopo la Resistenza, in seguito ad una crescente contaminazione democratica favorita dall’unità antifascista. In realtà, a mio avviso, la crisi di quella cultura si inscrive principalmente nel suo decorso, che si è consumato nel contraddittorio rapporto tra principi e inveramento storico. Non bisogna infatti dimenticare che nella ricerca delle motivazioni di fondo che hanno mosso i diseredati di tutto il mondo verso il proprio riscatto è difficilissimo operare una netta distinzione tra socialismo e comunismo, non solo perché sono nati dalla stessa coscia di Giove, ma perché all’osso, nella cultura popolare, sono sempre state le stesse. Anche se in Italia la riduzione dell’esperienza comunista al mero ambito dei confini nazionali sarebbe in netto contrasto con uno dei suoi presupposti fondamentali: l’internazionalismo. La stessa parola ha assunto significati molto diversi. Mi è capitato altre volte di osservare come, a livello dei mass media, il movimento criminale e terrorista dei Khmer rossi sia stato definito, impropriamente, come marxista. Ma al di là di questo paradosso appare evidente che l’elemento nazionale del comunismo cinese, inserito nella millenaria autosufficienza e nella percezione di superiorità della cultura cinese, aveva ben pochi contatti con la tradizione popolare, socialista e comunista dell’Occidente. La completa rinuncia a se stesso dell’individuo, la sua totale immersione nella collettività erano del tutto opposti alla autorealizzazione e liberazione dell’individuo di cui avevano parlato Gramsci e lo stesso Marx. Si è trattato di due visioni profondamente diverse. Si vede ad occhio nudo che ci sono stati ben pochi contatti tra le origini razionaliste e illuministe delle idealità del movimento operaio italiano e il misticismo volontarista e comunitario del comunismo orientale. Infatti, mentre il ramo centrale della cultura socialista e comunista è nato, come si diceva una volta, dalla filosofia tedesca, dal pensiero politico francese e da quello economico inglese, i tre elementi fondamentali che hanno caratterizzato la cultura comunista in Oriente sono stati il volontarismo, la tensione morale e il misticismo collettivista, unificati in una ideologia nazionale giustificata dalla sacrosanta esigenza di liberazione dal colonialismo. Naturalmente mi limito a sottolineare una distinzione e non una gerarchia di valori. Tuttavia, la storia non si occupa di come ciascuno di noi ha vissuto le cose. Si occupa di processi oggettivi che hanno coinvolto grandi masse, popoli, paesi interi e Stati. Per questo quando parlo di crollo del comunismo non mi riferisco al tema sotto il profilo più generale della storia delle idee, ma presto attenzione al modo in cui la cultura comunista, e il comunismo stesso, sono stati vissuti e percepiti dalle grandi masse del pianeta e come di riflesso e in contrapposizione sono emerse altre esperienze di sinistra. Parlo, in particolare, del comunismo che si è incarnato nel socialismo reale sotto la direzione di Mosca. Il progressivo distanziarsi dei diversi destini delle sinistre e il crescente baratro tra idealità e realizzazioni concrete, tra socialismo ideale e reale movimento storico, prendono l’avvio da un paradosso: mentre il regno della libertà prefigurato dal marxismo, per quanto carico di finalismo utopistico, richiedeva uno sviluppo delle forze produttive tale da creare le condizioni materiali idonee a facilitare l’instaurarsi di più libere relazioni umane, il centro della rivoluzione mondiale è stato la Russia, dove non c’erano le condizioni oggettive che Marx aveva posto a base di un superamento del capitalismo. Il “Capitale” di Marx avrà modo, in seguito, di vendicarsi ampiamente. Tuttavia con questa mia osservazione non intendo voler mettere le brache al mondo, negando che ci fosse nella Russia zarista una condizione rivoluzionaria che andava colta, anche se mi sembra del tutto evidente che le tappe successive alla rivoluzione d’Ottobre soffriranno di quella contraddizione. Che si irradierà nelle articolazioni territoriali e nelle diversificazioni ideali tra le sinistre, divenendo uno degli aspetti delle furiose lotte intestine.