Non era apparecchiata per gli israeliani, ma per il resto del mondo, la scenetta televisiva di Benjamin Netanyahu che – come un maestro di scuola o un addetto alle previsioni del tempo – indugiava sulla cartina di Israele. Il siparietto, con Bibi impegnato a descrivere i pericoli che corrono su quel filo meridionale del paese (il cosiddetto “Corridoio Filadelfia”), e a spiegare i motivi per cui è bene continuare a presidiarlo, non svelava proprio nulla di nuovo all’opinione pubblica israeliana, che è già divisa in modo consolidato su questo argomento. Serviva semmai a dare una collocazione e un qualche significato a una dicitura –“Corridoio Filadelfia”, appunto – sbocciata da qualche giorno in faccia a un’opinione pubblica internazionale cui si è spiegato che Hamas è purtroppo obbligata a trattenere gli ostaggi e ad accopparne un po’ alla volta perché il governo di Israele, irresponsabilmente, pretende di mantenere la propria grinfia guerrafondaia su quell’orlo di terra.

Netanyahu si esercitava in quel colpo di avanspettacolo nella concomitanza di un sondaggio, diffuso dalla televisione israeliana, secondo cui la metà degli intervistati rifiuterebbe un accordo con Hamas che prevedesse concessioni sul “Corridoio”. Un risultato, questo, solo apparentemente dissonante rispetto alle manifestazioni israeliane dei giorni scorsi, presentate nel resto del mondo come la riprova di un paese trasformato nel vasto centro sociale arcobaleno che canta John Lennon e infila fiori nelle bocche dei propri cannoni sionisti. La realtà, incompresa altrove, è che Netanyahu è destinatario di una sfiducia maggioritaria non per le cose che fa e dice di voler fare, ma perché si ritiene che non sia dotato della credibilità e affidabilità necessaria, né dell’autorità morale sufficiente, a condurre ulteriormente la guerra contro chi vuole distruggere Israele.

È emblematico, in proposito, il riscontro determinato dal discorso che – in difesa di sé stesso e delle scelte del proprio governo – Bibi ha opposto alle ultime e più gravi accuse, cioè in buona sostanza di aver trascurato la sorte degli ostaggi. Era difficile dargli torto – e infatti in pochi l’han fatto – quando osservava che non era cambiato proprio nulla da quando, giusto pochi giorni prima, Hamas rifiutava l’ennesima ipotesi di accordo: nulla se non il fatto che, a guarnizione di quel rifiuto, la parte palestinese sparava nella testa a sei ragazzi e ne scaraventava i cadaveri sul tavolo di una trattativa turbata dall’incomprensibile risentimento israeliano. Ma se era difficile dargli torto nel merito, e cioè quando osservava l’ovvietà di quella sanguinaria contraddizione (il governo di Israele chiamato a fare concessioni sulla scorta dell’ennesimo assassinio dei propri figli sequestrati), era facile obiettare – e infatti molti l’han fatto – che non era lui il meglio titolato a difendere le ragioni del paese, da tempo sguarnito proprio al Sud non per caso ma per le sue politiche fallimentari di difesa. Perché era l’esercito al suo comando quello che ammetteva di non essere stato capace di difendere gli israeliani dagli assalti del 7 ottobre, ed era l’apparato di sicurezza sottoposto al suo dominio quello che doveva accorgersi troppo tardi dell’inesausto passaggio di armi proprio dal “Corridoio Filadelfia” che ora lui rivendica di dover presidiare.

Ciò che in Israele si sa, e contro cui si manifesta, rappresenta una realtà letteralmente capovolta fuori da Israele. Vale a dire che non c’è un primo ministro da destituire perché ha fatto la guerra che era impossibile non fare, ma perché non si affida la gestione di una guerra a un personaggio di cui non ci si fida neppure su una questioncella di ordinaria amministrazione. Per molti israeliani Netanyahu detiene un potere da revocare non perché si è reso responsabile dei crimini di cui si blatera nelle redazioni pacifiste e antisemite o nei ricorsi degli Stati-Canaglia all’Aia, ma perché a uno che mente su traffici societari non si lascia il potere di mentire sulla vita e sulla morte dello Stato e sulla carne dei ragazzi che combattono contro i mostri del Sabato Nero.

Se con questo primo ministro, nei giorni delle magnificate manifestazioni antigovernative, la metà degli israeliani si dice contraria a mollare il controllo su quel feticcio delle prospettive di pace (il famigerato “Corridoio Filadelfia”), ci si può immaginare quale maggioranza soverchiante si sarebbe registrata se a capo del governo fosse stato un personaggio non altrettanto detestato. E la cosa dovrebbe far riflettere i tanti che, da qui, perseverano nella sciocca convinzione o, più spesso, nella malafede pregiudiziale, secondo cui da undici mesi un paese combatte questa guerra avendo subìto l’inoculazione stupefacente di un tiranno e non – invece – perché sa di doverla combattere sopportando la palese inadeguatezza di quel capo in un momento così drammatico e in una vicenda tanto tragica. Perché questo si sa in Israele e si fa mostra di non sapere altrove: che il nemico dei selvaggi del 7 ottobre, il nemico del vasto esercito che ripeterebbe l’esperimento appena potesse, non era il leggendario regime dispotico di Bibi Netanyahu, ma Israele con tutto il suo popolo.