La corsa all'Eliseo
Macron contro Le Pen, chi vincerà il ballottaggio delle presidenziali in Francia
Il grande match, oltre tre ore di pubblica scazzottata, non è finito come quello di cinque anni fa. L’esito nelle urne, domani, non sarà quello di allora: non con lo scarto immenso che decretò nel 2017 il trionfo di Emmanuel Macron. Ma alla fine “il presidente dei ricchi” quasi certamente ce la farà grazie al voto se non “dei poveri”, molti dei quali specialmente in provincia voteranno per la rivale Marine Le Pen, almeno della sinistra radicale, quella che al primo turno era andata a un pelo dal portare al ballottaggio Jean-Luc Mélenchon.
Nella campagna elettorale del ‘17 il faccia a faccia televisivo era stato un massacro. Aggressiva, rumorosa e impreparata la leader di quello che allora era ancora il Front National fondato da papà Jean-Marie era finita al tappeto di brutta. I risultato del voto nel ballottaggio era stato schiacciante: 66,10% contro il 33,90%. Anche stavolta la grande maggioranza dei commentatori ha assegnato la vittoria al presidente uscente, però ai punti e di misura. Macron, il presidente meno amato e meno popolare nella storia della Quinta Repubblica, continua a pagare la sua costitutiva incapacità di scaldare gli animi e di instaurare una pur vaga connessione sentimentale con i francesi, pur apparendo molto meno vago della sfidante quanto a programmi concreti. Madame Marine, in compenso, recupera proprio sul fronte della comunicazione diretta, della capacità di entrare in sintonia con gli umori della Francia profonda, soprattutto della provincia che ha battuto paese per paese, villaggio per villaggio.
Del resto l’eterna e sin qui eternamente sconfitta candidata della destra populista all’immagine deve tutto. Nei primi giorni del maggio 2002 l’avvocato Marine Le Pen, classe 1968, la minore tra le tre figlie di Jean-Marie, era già una dirigente molto quotata, anche in virtù della vicinanza al padre e leader, ma non in grado di ambire alla leadership. Alla fine del decennio precedente era stata in prima linea nello scontro con l’allora numero 2 del Front Bruno Mégret e aveva personalmente guidato la purga contro i “megrettisti”, dopo la sconfitta del leader che mirava a fare del partito una forza “di governo”, alleata con le altre formazioni della destra non populista. Ma la successione al padre sembrava fuori discussione: il prossimo capo del Front National avrebbe dovuto essere Bruno Gollnisch, già incoronato delfino. Il 5 maggio 2002, nel corso della campagna per le presidenziali, diversi esponenti del Front National avrebbero dovuto partecipare a varie trasmissioni tv su tutte le reti. Quello scelto per “coprire” France 3 si ritirò all’ultimo momento e al suo posto fu inviata sui due piedi Marine. Si dimostrò strepitosa, un vero animale televisivo. Da quel momento le apparizioni in tv si moltiplicarono, popolarità, potere e ambizioni della futura leader s’impennarono. “Marine è stata creata dai media”, commentava anni fa il padre: “È come un cavallo da corsa: amatori e professionisti hanno sentenziato che aveva delle doti e sono stati loro a promuoverla”.
Nonostante la défaillance del 2017, Marine Le Pen ha confermato di avere quelle doti in questa campagna presidenziale. Ha trasformato la sua tempestosa vita sentimentale, due divorzi, una relazione stabile finita nel 2019, in arma propagandistica per costruire una sorta di complicità con l’elettorato femminile. È stata molto abile nel trasformare la sua immagine da barricadiera a rassicurante senza mai perdere di vista i problemi reali delle fasce popolari: in primo luogo il potere d’acquisto, primo cruccio dell’elettorato francese. Al confronto Macron appare inesorabilmente algido, con la sua biografia-modello: laurea all’Ena, la scuola dell’élite francese, protetto prima del filosofo Paul Ricoeur, di cui è stato in gioventù assistente editoriale, poi dell’economista e banchiere Jacques Attali, banchiere per Rotschild, incassi milionari grazie al ruolo nell’acquisizione di una branca di Pfitzer da parte di Nestlé, vicesegretario generale dell’Eliseo e ministro dell’Economia sotto la presidenza di Hollande, mollato dimettendosi tra gli strepiti del presidente tradito per creare un partito con le sue stesse iniziali, En Marche, nel 2016 e correre alle presidenziali dell’anno successivo.
Macron non è riuscito a sfruttare neppure l’aspetto della sua biografia che più di ogni altro si presta alla costruzione di un legame empatico: il rapporto con la moglie Brigitte, 24 anni più di lui anche se Macron ne dichiara solo 20, nato quando il futuro presidente aveva appena 15 anni e metteva in scena, con l’allora professoressa di Teatro e futura sposa Brigitte Trogneux, Eduardo De Filippo. Al contrario, è stata lei a essere travolta dall’inesorabile calo di popolarità del marito durante la permanenza all’Eliseo. Per conquistare i voti di sinistra andati al primo turno a Mélenchon, il presidente ha puntato soprattutto sulle promesse ambientaliste e sulla vicinanza tra Marine Le Pen e Putin, senza riuscire a ribaltare il giudizio negativo dovuto a politiche economiche che hanno premiato il 2% della popolazione più ricco a scapito degli altri e politiche fiscali che sono andate a immenso vantaggio della ristretta fascia dei super-ricchi. Eppure, salvo possibili ma molto improbabili sorprese, Macron sarà rieletto con un vantaggio ridotto, secondo i sondaggi della vigilia 55% contro 45%, non in virtù del suo inesistente appeal ma della ancora radicatissima pregiudiziale antifascista francese.
Cinque anni fa il 35% dell’elettorato di France Insoumise, la formazione di Mélenchon, era tentato dal votare Le Pen, proprio come oggi. Cedette alla tentazione solo il 7%. Stavolta la percentuale potrebbe allargarsi ma non di moltissimo. “Siamo sempre stati contro Macron e torneremo a esserlo alle 20.01 di domenica. Ma fino a quel momento siamo con lui perché contro Le Pen si vota anche una scimmia”, dichiara il redattore capo di Charlie Hebdo Gérard Biard, dando voce all’umore di gran parte dell’elettorato di sinistra. Eppure le due figure così distanti e incompatibili in tutto, dalla biografia all’immagine alle ricette politiche, hanno un punto in comune: entrambi si dichiarano “né di destra né di sinistra”. La campagna per la “dediabolisation” del Front in cui è impegnata da oltre vent’anni Marine Le Pen, al punto da cacciare dal partito il padre per la sua tendenza a minimizzare la Shoah e le colpe dei nazisti, si basa proprio sul negare, contro ogni evidenza, la matrice di destra di quello che si chiama oggi Ressemblement National.
Quanto a Macron, per la sua distanza da ogni sospetto di appartenenza alla sinistra parlano gli atti e le leggi dell’ultimo lustro. “Ni de droit ni de gauche”, in questo caso, significa essenzialmente che l’identità dei rispettivi partiti coincide senza spazi residui con quella dei loro leader e i programmi dipendono solo dalle strategie che di volta in volta decidono di adottare. Macron si è creato il suo partito personale, nel quale ha raccolto sì buona parte del vecchio staff di Dominique Strauss-Kahn, ma più nella veste di collaboratori e dirigenti d’azienda che di esponenti politici. Marine Le Pen si è impadronita del partito fondato dal padre sgominando ogni opposizione interna sino a farne una cosa sua e solo sua. Molto più della scomparsa dei partiti tradizionali sancita dal primo turno è la loro sostituzione con partiti personali, fenomeno che riguarda in parte anche France Insoumise pur senza il corollario “né di destra né di sinistra”, a siglare il tramonto irreversibile della Quinta Repubblica.
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