Mafia, la sentenza della Corte Costituzionale: “Non si può punire il detenuto che non collabora”

Il detenuto per un reato di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso può essere “premiato” se collabora con la giustizia ma non può essere “punito” ulteriormente, negandogli benefici riconosciuti a tutti, se non collabora.

In questo caso, la presunzione di pericolosità resta ma non in modo assoluto perché può essere superata se il magistrato di sorveglianza ha acquisito elementi tali da escludere che il detenuto abbia ancora collegamenti con l’associazione criminale o che vi sia il pericolo del ripristino di questi rapporti. Pertanto non basta un regolare comportamento carcerario (la cosiddetta “buona condotta”) o la mera partecipazione al percorso rieducativo. E tantomeno una semplice dichiarazione di dissociazione. La presunzione di pericolosità, non più assoluta ma relativa, può essere vinta soltanto qualora vi siano elementi capaci di dimostrare il venir meno del vincolo imposto dal sodalizio criminale.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 253 depositata oggi (relatore il giudice Nicolò Zanon), dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, primo comma, dell’ordinamento penitenziario là dove non contempla che, nelle condizioni indicate, il giudice possa concedere al detenuto il permesso premio per compromettere la stessa coerenza intrinseca dell’intera disciplina di risulta.

IL ‘SISTEMA’ PRIMA DELLA SENTENZA – Prima della sentenza della Consulta in materia, che ne ha dichiarato l’incostituzionalità, la disposizione dell’articolo 4 Bis primo comma prevedeva che la mancata collaborazione con la giustizia del detenuto per un reato di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso dimostrasse in maniera inequivocabile la persistenza di rapporti con le organizzazioni criminali. Una presunzione assoluta, perché poteva essere superata solo attraverso la collaborazione stessa, con la richiesta del detenuto non collaborante di poter accedere a benefici come il “permesso premio” che doveva essere dichiarata inammissibile senza poter essere valutata da un magistrato di sorveglianza.

LEGGI ANCHE – Ergastolo addio, l’Europa civilizza l’Italia

L’ERGASTOLO OSTATIVO – La Corte ha inoltre precisato che le questioni di legittimità costituzionale sottoposte al suo esame non riguardano il cosiddetto ergastolo ostativo, su cui si è di recente pronunciata la Corte di Strasburgo perché non censurano, oltre il 4 bis, primo comma dell’Ordinamento penitenziario, anche l’articolo 2, secondo comma, del decreto legge 13 maggio 1991 n.152, convertito nella legge n. 203 del 1991, che non consente di concedere la liberazione condizionale al condannato all’ergastolo che non collabora con la giustizia e che abbia già scontato 26 anni effettivi di carcere. Le questioni sollevate davanti alla Corte non riguardano chi ha subito una condanna a una determinata pena ma chi ha subito una condanna (nella fattispecie all’ergastolo) per reati cosiddetti ostativi, in particolare di tipo mafioso.

LA REAZIONE DI BONAFEDE -Preso atto delle motivazioni della sentenza della Consulta sull’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, i tecnici del ministero della Giustizia sono già al lavoro per verificare, insieme al Parlamento, un’adeguata e tempestiva soluzione. E’ quanto si apprende da fonti del ministero di Via Arenula. “Sono sicuro che le forze politiche saranno compatte nell’affrontare le questioni urgenti conseguenti alla sentenza”, ha detto il Guardasigilli, Alfonso Bonafede.