Le transizioni sono sempre difficili da misurare: come stabilire quando il bianco diventa nero, quando la luce diviene buio. Eppure esiste un attimo, spesso impercettibile, in cui un raggio verde che dura pochi attimi separa il giorno dalla notte, un momento in cui le tenebre stanno per prendere il sopravvento sulla luce sempre più fioca che, però, non si rassegna ancora a scomparire.
Tre decenni or sono la storia del terrorismo subì una svolta epocale con l’arrivo dei primi pentiti. Le prime defezioni, i primi cedimenti. Lo Stato, a fronte del terribile spiegarsi della violenza delle cellule rosse e nere, trovava un’insperata via d’uscita nella collaborazione di uomini e donne di primo rilievo del Br o di Prima Linea o dei Nar. Quasi negli stessi anni, in quella temperie anche la mafia siciliana e la camorra campana conoscevano le prime, importanti defezioni. Anche lì boss di un certo rilievo sceglievano la via della resa e del pentimento offrendo agli inquirenti squarci imprevisti nel velo del silenzio. Magistrati di primissimo livello (Falcone, Borsellino, Vigna, Maddalena, D’Ambrosio, Pomarici e qualche altro) erano il suggello e la garanzia che deviazioni e depistaggi sarebbero stati evitati anche in quella terra così infida e paludosa. Le grandi professionalità messe in campo erano, al contempo, un argine e un deterrente per mistificatori, calunniatori o semplici profittatori dell’emergenza giudiziaria a caccia di qualche beneficio. Il numero dei sedicenti pentiti messi alla porta, arrestati per menzogne varie, sbugiardati e allontanati dagli stessi giudici che li interrogavano è stata la cifra oscura, e rimasta oscura, di un presidio di competenze che rassicurava e rendeva il processo penale uno strumento ovviamente sempre impreciso, sebbene con un coefficiente ancora tollerabile e tollerato.

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La spinta vitale di quella stagione, protrattasi sino alla fine del secolo scorso anche grazie all’olocausto del 1992, si fondava nella profonda conoscenza che quegli inquirenti avevano dei fenomeni criminali e delle loro dinamiche; loro fiutavano il vero e il falso, le chiacchiere e la verità, la pista e il depistaggio. Il candidato alla collaborazione passava da un filtro severo, stava a bagnomaria per mesi prima di entrare in un’aula di giustizia.  Certo c’erano anche allora innocenti accusati ingiustamente (Tortora tra tutti), ma il sistema aveva al proprio interno un patrimonio di conoscenze, di prudenze, di diffidenze che mitigavano i danni, lenivano le ferite più profonde. Sono passati due decenni e innanzi agli occhi si stende un deserto con poche oasi. Un vuoto pressoché assoluto di collaboratori di rilievo. Un pullulare di terze, quarte e anche ultime linee delle cosche – qualche volta alla ricerca di un reddito di cittadinanza dal Servizio di protezione per poter sopravvivere o di uno sconto di pena per uscire delle celle – inquina le indagini con chiacchiere in libertà, scenari immaginifici, racconti da romanzi gialli di quart’ordine, teorie complottistiche variopinte. A fronteggiare questo profluvio di banalità pochissimi inquirenti che abbiano ancora capacità professionali adeguate allo scopo. Qua e là si scorgono le nubi scure di inquirenti arrangiati che raccolgono narrazioni e chiacchiere di seconda e terza mano in fiumi di verbali in cui non riescono a muovere un’obiezione, a sollevare una contestazione. Appaiono ciechi e muti al cospetto di ciarlieri di vario genere che parlano di cose che chi li ascolta non conosce e, quindi, non controlla. Così le tenebre sono calate e il raggio verde che ancora distingueva il giorno dalla notte è stato sopraffatto.

L’esperienza di decenni, il sacrificio di tanti appare tante e troppo volte immiserito a un fenomeno da baraccone, corrotto dal solito convegno, dalla solita intervista, dal solito libro che nessuno ormai acquista.  Dichiarazioni roboanti e fantasmagoriche si stagliano come lampi e risultano solo buone per qualche articoletto sui giornali del giorno dopo e presto finiscono nell’oblio: indimenticabile ancora l’annuncio delle certe connessioni tra l’Isis e la ndrangheta lanciato da una titolata toga qualche tempo or sono e che costrinse il ministro dell’Interno a un’immediata smentita. L’emblema stesso dei nuovi tempi di cui il Csm o la Procura generale della Cassazione avrebbero fatto bene a chieder conto. Il tutto al cospetto di giornalisti troppe volte parimenti sprovveduti e impreparati, quando purtroppo non embedded nei corpi di spedizione inquirenti con la promessa di qualche scoop e con la speranza di qualche compiacente pentito disposto a darne per imminente il pericolo di vita per la loro coraggiosa attività di denuncia (con Pippo Fava o Beppe Alfano o Mario Francese a rigirarsi nella tomba). Le tenebre sono calate su quel mondo pulsante, magmatico, ma sempre vitale e indispensabile che erano le collaborazioni di giustizia del secolo passato. Prosciugate le conoscenze, squalificate le competenze, annacquate le speranze resta la desolazione di chi si consente di dire – senza provare alcuna vergogna perché non ha alcuna reale consapevolezza di quanto afferma – che «la mafia esiste, ma non si vede», come gli spiriti, come i marziali, come gli dei, come l’anima, come un virus che contagia. L’”ortoprassi” di Falcone e di una generazione di saggi magistrati si è trasformata in un’ortodossia con la sua Santa Inquisizione sempre vigile per mettere al rogo l’apostata, il miscredente, il dubitante, l’eretico che non cede al nuovo credo antimafioso e alle sue stucchevoli (e spesso corrotte) liturgie.

Alberto Cisterna

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