Presidente di magistratura democratica
“Magistratopoli non si può chiudere solo con espulsione di Palamara”, parla il leader di MD Riccardo De Vito
Si terrà oggi la seconda e ultima giornata della presentazione della rivista dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Diritto di Difesa, in occasione della prima pubblicazione cartacea (in diretta sul canale YouTube e su Camere Penali TV). Dalle 10 alle 12 si svolgerà un confronto sul tema “Politica e giustizia – Cosa salvare”, coordinato e moderato dall’avvocato Francesco Petrelli, in cui dibatteranno Goffredo Bettini, Gian Domenico Caiazza, Giovanni Fiandaca, Beniamino Migliucci, Gaetano Pecorella e Riccardo De Vito. Proprio con De Vito, magistrato di sorveglianza illuminato e presidente di Magistratura Democratica, abbiamo voluto discutere anticipatamente di alcune questioni attuali di politica giudiziaria. Due i concetti chiave che De Vito condivide con il Riformista: sull’attaccamento di Piercamillo Davigo alla poltrona del Csm – che non intende lasciare quando andrà in pensione dalla magistratura – ci dice che «sui principi non si passa sopra in nome dell’attualità politica»; mentre sul caso Palamara auspica che «il corpaccione della magistratura non approfitti di alcune circostanze» – tra cui le stesse direttive disciplinari della Procura Generale di Cassazione – «per ritenere chiusa la fase dell’analisi».
Partiamo dal titolo della rivista: Diritto di Difesa. Si tratta di un diritto costituzionalmente garantito. Ma stiamo assistendo a sempre più aggressioni agli avvocati nell’esercizio della loro funzione. Il Procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, ha detto che in questo avvocatura e magistratura devono essere unite perché anche i giudici vengono attaccati quando non soddisfano le richieste del “Tribunale del Popolo”. Qual è il suo pensiero in merito?
Le rispondo con le parole che il Presidente Curzio (Primo presidente dalla Cassazione ndr) ha pronunciato nella sua prima uscita pubblica (di rilievo simbolico anche per essere stata effettuata presso il Consiglio Nazionale Forense: giudici e avvocati esercitano insieme la giurisdizione. C’è poco da aggiungere a parole che rincuorano e segnano un argine a una ripresa di autoreferenzialità della magistratura. Dico solo che, come le vicende della Turchia dimostrano, la toga degli avvocati copre l’uomo ed è essenziale difesa dei diritti fondamentali di tutti. Un processo con una difesa marginalizzata, inoltre, sarebbe epistemologicamente meno attendibile. Non parliamo poi del ruolo anche sociale e culturale che i difensori svolgono nell’impattare, per primi, le vicende di coloro che devono mettere piede nelle aule di giustizia per ricevere tutela o essere giudicati. Ben venga, dunque, una rivista dedicata, aperta al confronto e libera come quella che in questi giorni viene presentata.
Lei parteciperà alla sessione “Politica e giustizia: cosa salvare”. La rappresentazione di questo rapporto malato è quella forse dell’Hotel Champagne, con magistrati e politici riuniti intorno a un tavolo a spartirsi le nomine. Dagli ultimi accadimenti sembrerebbe che il problema si risolva eliminando Palamara, mentre tutti quelli che hanno interagito con lui sono amnistiati dalla circolare Salvi.
I fatti dell’hotel Champagne dimostrano un salto di qualità pericoloso dei rapporti tra politica e magistratura e in questo senso occorre rilevare che la reazione della magistratura, in particolare dell’associazione, è stata fortunatamente tempestiva e priva di esitazioni. Tuttavia credo che per ricostruire la credibilità della magistratura sia necessario mettere al centro della discussione la crisi di un intero sistema e non soltanto la punizione inevitabile dei responsabili più eclatanti. In questo senso spero che il corpaccione della magistratura non approfitti di alcune circostanze – l’avvenuta espulsione di Palamara, le elezioni associative alle porte, le stesse direttive disciplinari della Procura Generale di Cassazione – per ritenere chiusa la fase dell’analisi del punto in cui siamo arrivati.
Il consigliere Piercamillo Davigo non ha alcuna intenzione di abbandonare la sua poltrona al Csm dopo la pensione. Qual è il suo pensiero in merito?
Attendo di valutare la decisione, che comunque sarà il portato di uno studio attento, considerata anche l’iniziativa inedita di chiedere un parere dell’Avvocatura. Continuo a credere, come ha scritto Nello Rossi, che la Costituzione preveda l’appartenenza alla magistratura quale presupposto permanente per tutta la durata del mandato. Sono sicuro che il Consiglio, qualunque sarà la decisione, terrà conto del fatto che sui principi non si passa sopra in nome dell’attualità politica. Mi attendo in ogni caso una pronuncia solida.
Nel convegno delle Camere penali si è parlato anche di carcere. Molte polemiche hanno suscitato alcune concessioni di detenzioni domiciliari e permessi premio. Dietro tutto ciò c’è il pensiero comune “Lasciamoli marcire in carcere”; mentre le statistiche ci dicono che più è dignitosa l’espiazione della pena più i detenuti ritornano in sicurezza in società. È una questione non solo politica ma anche culturale?
Non vi è dubbio che il paradigma culturale del buttare la chiave – unito a un procedimento legislativo pilotato dall’esecutivo e celere nel riprodurre le spinte della rabbia e della paura – costituisca la questione da affrontare. Occorre capire come costruire egemonia per un pensiero diverso e penso che si debba partire dalle storie delle persone, di quelle a cui è stata concessa una possibilità e che non solo ce l’hanno fatta, ma sono diventate motore di ulteriore cambiamento. Vale per la criminalità dei poveri e per la criminalità organizzata. In questo ultimo campo, ad esempio, sarebbe importante raccontare come mettere da parte gli strumenti dell’umanità della pena sia il più grande regalo che si possa fare, in termini di consenso, ai sodalizi criminosi. Ad agire così, poi gli si consegna il carcere in mano. Per questo, devo dire, mi ha fatto una certa impressione sentire autorevoli commentatori dire che “la legge è la legge, ma i mafiosi sono mafiosi”. Lo Stato di Diritto ha una sola parola e una sola legge per tutti, altrimenti si degrada, diventa meno credibile e più aggredibile.
Oggi in presenza di diffusi sentimenti sociali di paura, rabbia, risentimento, indignazione spesso rappresentati – se non costruiti e amplificati – dai mass-media, si richiede di intervenire subito, in modo esemplare e definitivo per rassicurare i cittadini. E la politica risponde con provvedimenti ad hoc: dal nuovo Codice Rosso all’omicidio stradale, dalla spazza-corrotti all’abolizione della prescrizione, dai “decreti sicurezza” al decreto Bonafede “anti-scarcerazioni”. Secondo Lei è corretto dire che la politica giudiziaria degli ultimi anni sia caratterizzata da un forte populismo penale?
Distinguerei due profili, sulla base della lezione di autorevoli criminologi. Quello che siamo abituati a chiamare populismo penale, o passione punitiva per dirla con Didier Fassin, è più un fenomeno di accrescimento del numero dei reati e dell’entità delle pene per rispondere a quell’eccedenza di emotività popolare, come dice Roberto Cornelli, spesso indotta dai media. È una politica di pan-penalismo (penal punitivism, dicono gli anglosassoni) che serve a calmierare l’ansia, catturare consenso, ma non a risolvere i problemi di sicurezza dei diritti: omicidio stradale e codice rosso sono un po’ la dimostrazione di quanto sia fallimentare affidarsi a questa strada. Nel frattempo, si svuota completamente il welfare, che agirebbe assai più efficacemente in prevenzione. Per populismo penale in senso stretto credo che occorra riferirsi a politiche che alterano gli equilibri della democrazia liberale e dello Stato di Diritto, a partire dalle garanzie processuali fondamentali e dalle regole che presidiano l’indipendenza della magistratura e la composizione delle Corti. In questo senso, il populismo penale in senso stretto lo vediamo all’azione in Paesi quali la Polonia e c’è da auspicare che i discorsi pubblici che si sentono a livello nostrano, tesi a esaltare quelle esperienze, non ricalchino poi quei percorsi. Anche perché il diritto di difesa, per il quale dobbiamo batterci, sarebbe un puro suono della voce se non si difendesse l’indipendenza, interna ed esterna, della magistratura
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