Il Palamara-gate
Magistratopoli, ora anche molti giudici chiedono la separazione delle carriere
Canto XIX, Inferno, VIII cerchio, terza bolgia: i simoniaci stanno conficcati a testa in giù in buchi infuocati della roccia; ne fuoriescono le gambe dell’ultimo peccatore, lambite dalle fiamme. Uno dei canti più belli della Divina Commedia si apre con la nota apostrofe di Dante contro Simon Mago e i suoi seguaci, i simoniaci appunto, colpevoli di aver fatto commercio delle cose sacre. A spanne la reazione di una parte dei magistrati italiani allo tsunami che si è abbattuto su di loro potrebbe essere declinata con i versi del Sommo. Lo sdegno per un mercimonio di favori e di posti sarebbe da addossare a un pugno di infedeli faccendieri, di contagiati dal mal di potere, di dannati della carriera, di apostati della purezza della corporazione. Per carità, è un sentimento, in alcuni casi, anche sincero, profondamente giustificato dai disagi e dai sacrifici che tantissime toghe affrontano ogni giorno nel gestire una macchina lenta, farraginosa, vetusta. Non è di questo sdegno, però che occorre discutere, anche perché, francamente, appare il più delle volte incanalato in una gara, a tempo largamente scaduto, a chi si mostra più indignato, o più sorpreso, a tratti imbarazzante.
Lo si era già visto l’anno scorso questo sdegno a scandalo (mezzo-scandalo, invero) appena esploso e nulla era cambiato. Anzi a confrontare certe nomine recenti con certe telefonate intercettate si ha il sospetto che operazioni pianificate da tempo continuino ad andare in porto a dispetto di ogni denuncia e di ogni rassicurazione e malgrado il nocchiero sia stato appeso all’albero maestro. Evidentemente l’abbrivio del transatlantico correntizio è piuttosto lungo e lo stop impresso al vapore non ha ancora fermato le macchine. Comunque, poiché il principio di buona fede e la presunzione d’innocenza rappresentano i cardini del diritto, mettiamo da parte come buone le dichiarazioni che vorrebbero rassicurare un Paese in gran parte sbigottito dagli avvenimenti e prendiamo in esame la situazione. La magistratura italiana ha dissipato, in un tempo non breve, un patrimonio enorme di credibilità e una reputazione immensa. Si trattava di risorse cospicue, frutto dello straordinario intersecarsi di un assetto costituzionale della giustizia ampiamente di favore (come in nessun’altra nazione) verso la magistratura e di un impegno talvolta eroico sul versante del terrorismo, della corruzione e della mafia.
Se si volge lo sguardo al modello di giurisdizione tracciato in Costituzione ci si accorge che l’avvocatura non è neppure menzionata e che tutto l’indispensabile apparato di servizio ha solo un fugace cenno nella parte relativa alle competenze del Ministro. Un impianto appena ritoccato nel 1999 con la riforma sul giusto processo, ma senza alcuno spostamento del baricentro costituzionale dall’asse delle toghe e dal loro ordinamento. Un epicentro mai messo in discussione. Una totale identificazione tra toghe e giurisdizione che coinvolge anche il pubblico ministero. Un monolite, si ripete, senza eguali nelle democrazie occidentali e non solo. In questo monopolio costituzionale la funzione di regolazione della corporazione spettava al Csm, a sua volta un insolito monarca assoluto a base elettiva con pochissime regole esterne e un controllo – a tratti asfissiante – sui comportamenti dei singoli magistrati, sull’organizzazione degli uffici, sul funzionamento del processo, sugli incarichi e su molto altro.
Tutto questo, sarebbe inutile nasconderlo, è andato in frantumi e proprio nel suo ganglio più vitale. Il corpo del re è apparso nudo, lacerato e purulento. La caduta di prestigio dell’Organo di autogoverno – che tanto aveva impensierito il Quirinale lo scorso anno nella stagione delle dimissioni di alcuni dei consiglieri coinvolti – rischia ora di travolgere la magistratura italiana che, come potere pulviscolare e diffuso, non è in grado di reggere le spinte disgregatrici che la investono in tutti i settori. Un potere sostanzialmente acefalo costituirebbe una rottura della Costituzione e non è possibile fare a meno di un centro di imputazione della funzione giudiziaria. Il Csm è indefettibile.
Tuttavia, i magistrati, lasciati a sé stessi, non hanno dato buona prova nella gestione dell’amplissima autonomia e indipendenza che il Costituente aveva loro affidato nel 1947. Quando l’autogoverno ha iniziato a volgersi verso il malgoverno (questa è la percezione diffusa anche tra le toghe) è chiaro che si sono messi in discussione i pilastri della terra su cui dovrebbe essere edificata la casa della giustizia. Occorre comunque aggirarsi con discernimento tra le molte ipotesi di riforma. A esempio, silenziosamente e con circospezione, guadagna consenso tra i giudici l’idea di una separazione delle proprie carriere da quelle dei pubblici ministeri; intesa non più quale strumento per il riequilibrio delle parti processuali innanzi alle corti, ma come via per liberarsi di quella che è apparsa la zavorra più malmostosa e greve delle vicende recenti: la corsa per capeggiare le procure.
Non si può dimenticare che tutto è nato dalla successione alla guida della più importante procura della Repubblica del paese e che la maggior parte dei soggetti invischiati, sino ai livelli apicali, fossero appartenenti agli organi requirenti. Il protagonista dell’affaire lo ha dichiarato pubblicamente in un’intervista televisiva: il problema della lotta per gli incarichi riguarda quasi esclusivamente le procure della Repubblica che hanno la disponibilità della polizia giudiziaria. Parola in più, parola in meno. La sensazione è quella che porzioni, purtroppo non marginali, della magistratura inquirente abbiano delimitato una terra infida e pericolosa che il Csm non è riuscito a governare con la necessaria risolutezza e fermezza. Si insinua, in più di un giudice e a mezza voce, la tentazione che sarebbe meglio liberarsi degli scomodi “colleghi” per evitare che colino a picco l’intera corporazione. Magari dando loro un proprio Csm in cui azzuffarsi e regolare i conti dei propri conflitti senza coinvolgere la terzietà e imparzialità dei giudici, presidio irrinunciabile del patto sociale, da tenere al riparo da ogni sospetto.
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