Magistratopoli, parla Giuseppe Ayala: “Csm verminaio, Falcone capì tutto 30 anni fa”

Giuseppe Ayala, Pm antimafia per anni affiancato al pool di Falcone e Borsellino, dall’alto dei 75 anni appena compiuti ha ancora tanta voce, quanta memoria. “The voice”, lo chiamava Falcone: «Tu sei la Voce, ma la canzone la scriviamo insieme». E poi andavano a far cantare gli imputati, nelle aule di giustizia in cui Ayala teneva le requisitorie. «Nell’aula bunker del maxi processo rimasi chiuso dentro per otto giorni e otto notti: per sicurezza dovevo rimanere blindato». Una storia di magistratura in prima linea, negli anni roventi dello scontro frontale con Cosa Nostra. «Ero un Pm competitivo, dicevano di me Borsellino e Caponnetto. E posso dire di non aver mai perso un processo». In quegli anni, nessuna comparsata televisiva. Una passione civica mai sopita lo porterà invece a Roma, dove è stato parlamentare quattro volte: due alla Camera e due al Senato. Oggi è vicepresidente della Fondazione Giovanni Falcone e gira le scuole per portare la memoria della sua guerra alla mafia.

Che cosa sta succedendo alla magistratura?
Non conoscevo da vicino i modi di fare di certi personaggi rappresentativi del Csm. Ma sostengo da anni che il Csm è il peggior nemico dei magistrati. Il ministro della Giustizia Vassalli una volta disse: «Ogni Csm riesce adessere peggiore del precedente». E questi tempi non fanno eccezione. È emerso un verminaio.

Non è sorpreso, quindi.
Diceva Giovanni Falcone nel 1988: «Se i valori dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura sono in crisi, questo dipende in maniera non marginale dalla crisi che da tempo investe l’associazione dei giudici, rendendo l’Anm un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi. Le correnti dell’Anm si sono trasformate in macchine elettorali per il Csm e quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata in seno all’organo di governo della magistratura con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica». Io non ho l’autorevolezza di Falcone, ma penso la stessa cosa.

Che cosa le ha insegnato la sua esperienza politica?
I tre poteri di Montesquieu devono rimanere indipendenti, la confusione e la debolezza della politica implicano il rafforzamento del potere giudiziario, e non è mai un bene. Se le istituzioni fossero forti, autorevoli, indiscutibili, chi esercita altre funzioni tornerebbe nel suo alveo.

E lei quando decise di passare dalle aule giudiziarie a quelle del Parlamento?
Giorgio La Malfa mi telefonò e mi disse di andarlo a trovare. Ero con Falcone, che volle accompagnarmi. Mi chiese di candidarmi alla Camera, chiesi 24 ore di tempo per riflettere. Aspettavamo l’ascensore, Falcone mi disse: «Sai quali sono le scommesse che si perdono sicuramente? Quelle che non si accettano». Il suo incoraggiamento fu decisivo: rientrai nell’ufficio di La Malfa, dicendogli: «Le 24 ore sono passate. Accetto». Ma non ho mai preso la tessera di un partito, perché un magistrato non deve prendere tessere di partito.

Anche perché i partiti dei magistrati sono le correnti, come insegna Palamara.
Io non voglio difendere Palamara, me ne guardo bene. Ma in questa vicenda lui ci è incappato perché aveva il trojan nel telefono, ma penso che altri Palamara ce ne sono. E chissà quanti. Lo strapotere delle correnti è un problema strutturale. Ma tengo anche a dire che la magistratura è fatta da donne e uomini che ogni giorno vanno a svolgere il proprio lavoro con serietà e sobrietà.

Ha notizia di altri casi Palamara?
Non voglio fare nomi, ma anni fa sostenni che ci sono dei colleghi che facendo i magistrati, seguono una carriera parallela. Usano la carriera di magistrato per assumere ruoli di potere. Sto pensando a un nome che non farò, ho certamente in mente qualcun altro alla Palamara. E potrei mettere giù un elenco. Non c’era solo Palamara, ma diciamo che si era conformato bene a questa logica della carriera parallela.

Lei ha letto la bozza di riforma?
Ho letto questo discorso del sistema elettorale; con priorità di genere e ballottaggio. È una sperimentazione; la cosa peggiore nella vita è stare fermi, poi non è detto che sia la soluzione migliore. Io ho parlato con qualche collega, tutti si aspettano un intervento tempestivo e efficace.

Lo auspicano a bassa voce.
Non parlano perché in fondo hanno subìto. Ma tutti vogliono che cada questo sistema.

La corruzione è fisiologica, quando troppo potere si cristallizza sempre nelle stesse mani.
Esattamente. Quando gestisci troppo potere e troppo a lungo e diventi di fatto il referente di chi vuole condizionare la vita pubblica e le porte della corruzione si aprono.

Che rapporto avevano Falcone e Borsellino con la magistratura associata?
Paolo (Borsellino, ndr) era militante autorevole di Magistratura Indipendente, l’area più conservatrice. Ma di giochi di potere di questo genere non ne sognava neanche di notte. Era una persona trasparente e pulita che credeva molto nei valori altissimi del magistrato.
Falcone era meno impegnato nelle aree associative, anche se per la verità insieme demmo vita a una corrente che chiamammo I Verdi. Non per attenzione all’ambiente, ma perché casualmente il foglio su cui avevamo scritto i principi fondamentali era verde. Era un impegno di rottura, che poi si trasformerà nel tempo nella corrente di Area. Non ci impegnammo però poi molto, anche perché eravamo sin troppo occupati con il lavoro quotidiano per dedicarci a queste attività.

Come ogni anno, nell’anniversario di Falcone tutti si riscoprono suoi buoni amici. Anche la politica. Ma lui in realtà da che parte stava?
A me e Falcone ci chiamavano Toghe Rosse. Avevamo una sensibilità di sinistra ma né Falcone né io abbiamo mai votato Pci. Avevamo votato tutti e due Pri. Quando io mi candidai nel 1992 alla Camera con i Repubblicani, fui spronato e sponsorizzato da Falcone. La famosa fotografia in cui Falcone e Borsellino sorridono insieme, spalla a spalla, è stata scattata dal fotografo Tony Gentile al comizio del Pri di Palermo che facemmo per lanciare la mia candidatura.

Falcone aveva rapporti stretti con la politica?
Nessuno in particolare, era un elettore repubblicano convinto, come dicevo: un ammiratore di Ugo La Malfa. Non intrattenne mai rapporti, e tantomeno chiese favori. Abbiamo convissuto per dieci anni, lo so con certezza. Con il ministro della Giustizia Claudio Martelli andava d’accordo, più per ragioni istituzionali che per simpatia politica.

Sulle commistioni di affari tra mafia e politica avevate lavorato anni.
Il mandato d’arresto per Ciancimino lo avevamo firmato io e Falcone. I cugini Salvo, che erano i due uomini più ricchi e potenti della Sicilia, legati a Salvo Lima, su mia richiesta sono stati arrestati con mandato emesso da Giovanni Falcone. Che poi fu addirittura accusato da esponenti dei movimenti antimafia, con un esposto firmato al Csm, di nascondere nel cassetto le prove del rapporto tra mafia e politica. Puttanata gigantesca che però gli provocò una grande amarezza. Nei cassetti di Giovanni non c’era nulla di nascosto: quando adottavamo una iniziativa, avevamo gli elementi che in dibattimento portavano alla sentenza di condanna. Non facevamo cose per finire sui giornali. E la storia parla per noi: i processi li abbiamo vinti tutti.

I tempi sono cambiati, le luci della ribalta piacciono a tutti.
Oggi c’è una sensibilità mediatica di alcuni magistrati. Comparire sui giornali e andare in tv piace a molti, con alcuni giornalisti tengono ad avere rapporti tali per garantirsi quel successo mediatico cui tengono. Falcone era l’opposto. Noi non abbiamo mai fatto un comunicato stampa. Lavoravamo con la riservatezza dovuta al nostro ruolo, al riparo dai giornalisti.

A proposito: Saverio Lodato, L’Unità di Palermo, ha rivelato una confidenza di Falcone…
Ho visto che dopo trentun anni ha ricordato che Falcone, con cui si davano del lei, gli avrebbe riferito un sospetto, una cosa così riservata, facendogli il nome di Contrada come mente dietro all’attentato dell’Addaura. Sarà vero ma non ci credo. Mi suona strano, per l’accortezza di Giovanni.

Che idea si è fatto di Contrada?
Anni prima del 1989, Contrada mi venne a trovare in ufficio. Giovanni mi mise in guardia: “Accura a Contrada”, mi disse in siciliano. Quando Contrada andò a processo venni ascoltato, e lo raccontai.

Quindi le riserve di Falcone su Contrada c’erano.
Sì. Da molto prima dell’Addaura.

Andiamo a via D’Amelio. «Dopo Falcone e Borsellino, il terzo sarà Ayala», si disse.
Mi fu detto esplicitamente da livelli istituzionali molto alti, e infatti non le dico dall’attentato di via D’Amelio in poi quali misure di sicurezza furono prese. Mi fu sconsigliato di andare a Palermo. Le rare volte in cui andavo, con volo di Stato da Roma, trovavo ad attendermi due elicotteri: io dovevo scegliere all’ultimo su quale salire, senza dirlo prima a nessuno. In volo, gli elicotteri dovevano seguire sempre percorsi diversi, una volta sul mare, un’altra sull’interno. Cambiò tutto il protocollo di sicurezza, e funzionò.

Con Falcone e Borsellino le misure non furono così attente.
Ci furono dei buchi incredibili nella rete di sicurezza. Dentro Palermo per andare al Palazzo di giustizia ogni giorno ci facevano cambiare percorso, poi per prendere l’aereo si andava dritti a Punta Raisi con l’unica strada esistente. Una volta Falcone fu profetico, eravamo in macchina insieme e mi disse: «Ma se ci fanno un attentato qui, in autostrada?» – ed ebbe anche quella volta ragione. E per Borsellino, che aveva l’abitudine di andare a trovare spesso l’anziana madre, è assurdo che nessuno abbia pensato di mettere un presidio di protezione lì in via D’Amelio.

Che successe quando lei arrivò, tra i primi, in via D’Amelio il giorno dell’attentato?
Stavo a duecento metri, arrivai subito, con la scorta. Fu uno choc incredibile, tra fuoco e fiamme mi ritrovai tra le gambe un corpo carbonizzato: era Paolo Borsellino. Presi la sua borsa dalla macchina e la consegnai a un ufficiale dei Carabinieri.

L’agenda rossa però da lì in poi è scomparsa.
Io di una sua agenda rossa non sapevo neanche l’esistenza.

È diventata un’icona. Un simbolo. Forse anche un mito.
Se ne è parlato moltissimo, ma non ne sapevo niente. Paolo Borsellino nel 1986, tre anni prima di morire, diventò Procuratore della Repubblica di Marsala. Tornò a Palermo a fine 1991 o inizio 1992. Dunque fino a poco prima non ci eravamo frequentati, non conoscevo i suoi oggetti personali. Comunque ognuno di noi ha la sua agenda con i propri impegni, ma posso dire una cosa per certo: nessun grande magistrato affida tutti i suoi segreti a un’agendina. Esistono archivi, schedari, fascicoli. E Paolo era puntuale e meticoloso: appena appurava qualcosa lo andava a riferire a chi di competenza o aggiornava gli atti di indagine.

Giovanni Falcone aveva una sua agenda riservata?
Aveva un’agenda con gli appuntamenti, come la avevo io. Una volta doveva andare a New York, dove in aeroporto vendono a buon prezzo il profumo preferito di mia moglie, “Tatiana” di Diane Von Funstenberg. Un profumo che a Palermo non si trova facilmente. Gli chiesi di farmi la cortesia di comprarmi un paio di confezioni e Giovanni annotò “Tatiana” sulla pagina, alla data di New York. Pensai: se succede qualcosa, se smarrisce l’agenda, chi la trova immaginerà subito che c’era un’amante con questo nome ad aspettarlo. Le agende sono fatti privati.

Oggi nell’agenda di certi magistrati ci sono invece gli studi televisivi.
C’è una propensione alla notorietà, oggi, che noi non conoscevamo. Una bella intervista a Davigo, che spara cose forti, ci sta. Capisco che tiri su gli ascolti. Ma questo non giova alla magistratura. A noi insegnavano che la riservatezza è una dote fondamentale per chi vuole far bene questo mestiere. Piercamillo è un uomo molto intelligente che si è andato radicalizzando, negli anni. Questa sua frase per cui «non vanno aspettate le sentenze» è una frase che non devi dire, se fai il magistrato.

Forse non la devi neanche pensare.
Non la devi neanche pensare, ma men che mai dirla. Poi è vero che in Italia manca il controllo sociale, che il senso civico è spesso scarso. Il mio sogno è che l’amore per la giustizia sia tanto diffuso da portare all’autocontrollo, a un senso più alto di responsabilità e del pudore. Se la politica recupera dignità e riesce a selezionare meglio la classe dirigente, lo strapotere giudiziario si arresta.