Il racconto
Maiolo e Sgarbi accusati di mafia difesi da tutti, tranne che da Marco Travaglio
Sarei bugiarda, se dicessi che sulla mia pelle quell’indagine di mafia non lasciò nessun segno. Provate a svegliarvi al mattino, a guardarvi allo specchio e a dirvi “faccia di mafiosa, faccia di mafiosa”. Andare alla Camera, presiedere la Commissione giustizia, sedersi allo scranno più alto, toccare la campanella argentata simbolo di potere ma anche di integrità, e pensare che magari qualcuno ha creduto davvero che tu abbia fatto un patto scellerato, un po’ come la monaca di Monza: la sciagurata rispose. Ti viene il dubbio che tra le tante facce, tra le tante mani che hai stretto ci fosse anche quella viscida del pentito Franco Pino. Poi rialzi la testa, e improvvisamente accade il miracolo. Nella lettura dei giornali.
Ed ecco il fatto straordinario, in quei primi giorni di novembre del 1995. Era talmente paradossale l’idea che persone come Tiziana Maiolo e Vittorio Sgarbi avessero concordato un consistente pacchetto di voti con un boss della ‘ndrangheta in cambio di riforme sulla giustizia per le quali si battevano già ogni giorno, che tutto il mondo politico e dell’informazione si trovò d’accordo. Credereste? Tutti contro i pubblici ministeri di Catanzaro. Invano i cronisti in quei giorni andarono a cercare il famoso ago nel pagliaio, un politico che si schierasse con la magistratura. Non fu mai trovato. Se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo sul piano giornalistico, possiamo andare a ripescare la cronaca di un giovanissimo Marco Travaglio che sull’Indipendente, sotto il titolo “Parola d’ordine: la Piovra non esiste”, mi dedicò affettuosità del tipo: «Donnina previdente, la Tiziana Maiolo. Nemmeno un mese fa aveva caldeggiato l’abolizione dell’associazione mafiosa. Lo stesso reato che le ha contestato l’Antimafia calabrese…». Ma fu l’unico. Anche perché sullo stesso quotidiano Massimo Fini, pur dicendosi in dissenso dalle nostre posizioni politiche, difese Vittorio Sgarbi e me senza esitazione alcuna. Persino il manifesto, che non mi amava molto per via del mio “tradimento” con Berlusconi, fu costretto a difenderci. Tiziana che tratta con un boss non ce la vedo proprio, disse il direttore Valentino Parlato.
“Bufera sui giudici calabresi”, titolò La Stampa, e affidò a Marcello Sorgi la difesa incondizionata al diritto di due deputati di lottare per le garanzie di tutti e persino di essere contro i professionisti dell’antimafia. Durissimi furono i commenti di Repubblica (in che cosa consisterebbe lo scambio?) e del Corriere, con Paolo Frajese e Enzo Biagi. L’Unità lasciò a Enrico Deaglio il compito di dire esplicitamente che nel nostro caso non si trattava di “voto di scambio” ma di normale democrazia. Ma il capolavoro lo fecero alcuni magistrati. Il procuratore aggiunto di Napoli Michele Morello, che aveva già svolto nel 1992 indagini per corruzione elettorale, avvicinato dai giornalisti, sul caso Maiolo-Sgarbi aveva detto: «Il mio ufficio e io ci interessiamo di cose serie». E il procuratore nazionale antimafia Alberto Maritati aveva mostrato stupore per un’inchiesta che pareva riguardare opinioni.
Il Pds, l’erede del Pci che aveva sostenuto la magistratura di Milano nella demolizione del pentapartito nell’attesa di impadronirsi delle spoglie in particolare del Partito socialista, era in grande imbarazzo. Intanto perché stava sostenendo un governo di tecnici presieduto da Lamberto Dini, dopo la caduta di Berlusconi per opera del pugnale di Bossi, e si era adoperato con forte grinta ad abbattere il ministro di giustizia Mancuso, con la prima mozione di sfiducia individuale della storia. Mancuso era un vero garantista, e aveva mandato ispezioni al pool di Milano. Questo era parso intollerabile agli uomini del Pds, che avevano scelto in quegli anni di schierarsi con i Pubblici ministeri senza esitazione. Per questo rimasero imbambolati per qualche ora, quel tre novembre. Ma io fui lestissima nello schierare tutto quanto il Polo delle libertà al mio fianco, in una conferenza stampa con gli esponenti di Forza Italia, ma anche Gustavo Selva di An e Rocco Buttiglione, Marco Taradash e l’avvocato Taormina, che versò parecchia benzina sul fuoco.
Sventolammo quell’avviso di convocazione che mi accusava di aver barattato voti con riforme e minacciava di farmi accompagnare dal Pm con i carabinieri. Ma fu lesto anche il responsabile giustizia del Pds Pietro Folena, uno che non era considerato molto prestigioso, tanto che Cossiga lo chiamava “l’indossatore”, ma che in quell’occasione capì subito da che parte tirava il vento. Ma furono chiarissimi personaggi storici come Emanuele Macaluso («caso folle, segno di crisi di alcuni settori della magistratura»), Stefano Rodotà («Le deduzioni dei pm sono scorrette») e Giovanni Pellegrino («è un non-reato»), tanto che fu costretto a essere esplicito anche Cesare Salvi, capogruppo pds al Senato e fratello maggiore di Giovanni, che oggi è il procuratore generale della cassazione. Persino colui che era stato il principale accusatore del ministro Mancuso, quel giorno disse con chiarezza che, in mancanza di riscontri oggettivi, ci trovavamo davanti a un caso di «abuso compiuto dal pubblico ministero». Disse la sua anche Mauro Paissan, leader dei Verdi, che non dimenticò la buona scuola del garantismo del manifesto, invitando i magistrati a «pensare ai reati e non alle posizioni politiche». E il professor Flick non le mandò a dire: cari pm, ci vogliono le prove. I magistrati non se lo aspettavano. La Dda di Catanzaro aveva dichiarato guerra alla città di Cosenza, con un’operazione chirurgica che colpiva politici e avvocati: Giacomo e Pietro Mancini, di cui invano il pm aveva chiesto l’arresto, e poi i legali Tommaso Sorrentino ed Enzo Lo Giudice, il cui studio era stato perquisito nella vana ricerca della minuta del “decreto Biondi”, cosa che aveva fatto imbufalire l’ex guardasigilli del governo Berlusconi.
Andatelo a cercare al Quirinale dove è stato firmato dal Presidente della repubblica, aveva sibilato. La tesi dei pm era che molte iniziative politiche sulla giustizia, in particolare da parte di Forza Italia, fossero guidate da un gruppo di avvocati calabresi legati alla ‘ndrangheta. Alcuni di loro furono addirittura inquisiti perché avevano proclamato uno sciopero, quindi sospettati di volersi scegliere i giudici che avrebbero dovuto processare i loro assistiti. E un fascicolo su alcuni magistrati cosentini sospettati di collusione con gli avvocati fu spedito per competenza a Messina. Ci furono giorni e giorni di accuse martellanti contro la Dda di Catanzaro sui giornali. Anche il prudentissimo presidente del Consiglio Lamberto Dini si era detto “sorpreso” e il Presidente emerito della repubblica Francesco Cossiga, elegantissimo con bastone e cappello era venuto con codazzo di giornalisti a portarci la solidarietà nei nostri uffici alla Camera. Così a un certo punto i pubblici ministeri di Catanzaro reagirono.
E la toppa fu peggio del buco. Invocarono l’obbligatorietà dell’azione penale. Perché, se il pentito Franco Pino aveva detto di averci dato voti in cambio del nostro impegno a fare le riforme, loro dovevano indagare, e gli avvisi erano un atto dovuto. Poi dissero che non eravamo indagati come parlamentari, ma come cittadini “comuni”, candidati alle elezioni del 1994. I poveretti ignoravano che noi eravamo già deputati dal 1992, Sgarbi eletto nella lista del Partito liberale e io come indipendente radicale in Rifondazione. E in quegli anni avevamo già visitato tutte le carceri e presentato diverse proposte di legge per riformare la giustizia, nonché criticato ripetutamente una certa gestione dell’antimafia e dei pentiti. A Catanzaro evidentemente era tutto passato inosservato.
Fecero allora un vero passo falso. Convocarono come persona informata dei fatti Silvio Berlusconi. Volevano sapere come mai il leader di Forza Italia avesse candidato proprio noi due in Calabria, oltre a tutto nella lista proporzionale. La cosa per loro evidentemente era sospetta. E fu chiaro a tutti che la loro operazione era politica. Il che comporterà, nei tempi successivi, un innalzamento del livello del confronto-scontro tra istituzioni. E saranno costretti a occuparsi del “caso Maiolo-Sgarbi” il Consiglio superiore della magistratura, il premier Lamberto Dini, i presidenti della Camera e del Senato Irene Pivetti e Carlo Scognamiglio e il Presidente della repubblica Oscar Maria Scalfaro.
(2-continua)
© Riproduzione riservata