Il dossier
Malati in cella e disoccupati fuori: a Poggioreale uno su 2mila è stato assunto
In cella ci sono troppi detenuti anziani e malati, e quelli più giovani, una volta scarcerati, restano senza lavoro e senza opportunità. Serve davvero un carcere che funziona così? Che toglie futuro e salute, che non reintegra nella società chi ha avuto una pena da scontare e lo rimette in strada in balìa di se stesso e della criminalità pronta con i suoi tentacoli a racimolare manovalanza… A leggere il report del garante per i detenuti di Napoli, Pietro Ioia, presentato ieri a un anno dalla sua nomina, viene da chiederselo.
«In carcere ci sono centinaia di detenuti con patologie pregresse, ci sono anziani anche più malati di Verdini – afferma Ioia – Ogni volta che li incontro mi ripetono le stesse cose e i familiari mi fanno le stesse segnalazioni sulla sanità penitenziaria. Purtroppo ci sono tantissimi detenuti che potrebbero uscire prima perché hanno pochi mesi da scontare, eppure per loro non accade nulla». «Lo Stato è spesso assente e la politica troppo preoccupata a non perdere consensi tra l’opinione pubblica», aggiunge Ioia affrontando un altro aspetto critico: il lavoro.
Per i detenuti, infatti, non ci sono molte prospettive di impiego e i percorsi di reinserimento si fermano a progetti che durano una manciata di mesi. Poi il nulla. Dei 2mila reclusi nel carcere di Poggioreale solo 289 hanno avuto un lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria nel 2020 e soltanto uno è stato assunto da una ditta esterna. Il dato che emerge dalla relazione del garante Ioia riporta così di attualità il problema dell’eccessiva distanza che c’è tra il mondo fuori e il mondo dentro il carcere, una distanza che si traduce in un abisso pronto a dividere le parole dai fatti, i progetti dalla realtà, la funzione che pena e reclusione dovrebbero avere secondo la Costituzione (funzione rieducativa e riabilitativa) e quella che nei fatti hanno (punizione e privazione della libertà, in molti cui anche dei diritti). «Il progetto Marinella e gli Aquiloni 2020 è stato importante, i ragazzi coinvolti hanno lavorato sodo, hanno rimodernato le scuole di un quartiere di Napoli e ripulito giardini, purtroppo però trascorsi i tre mesi di lavoro previsti dal progetto per loro è finito tutto», segnala Ioia.
E come a rimarcare questa distanza, con amarezza il garante cittadino racconta anche di non essere stato affiancato dall’amministrazione comunale: «Il sindaco doveva venire con noi in visita ai detenuti, ma non si è fatto più sentire». Di mezzo c’è stato anche il Covid che ha pesato su tutto, in particolare sulla sanità penitenziaria, e ha accentuato le distanze tra il carcere e il mondo fuori. «Ma la vera dignità la dà il lavoro – sottolinea Ioia, tornando sulla necessità di concentrare risorse per la realizzazione di sinergie virtuose ai fini del rieinserimento dei detenuti – Se non riusciamo a dare lavoro, l’80% degli ex detenuti rischia di tornare a delinquere e diventare manovalanza per la criminalità organizzata. Non servono i sussidi come il reddito di cittadinanza, serve dare lavoro. Occorrerebbe pensare a un Piano Marshall per i carcerati».
Per Ioia, dunque, la soluzione ai problemi della sicurezza e della legalità è una: dare un’opportunità di lavoro a chi ha terminato di scontare la propria pena, perché significa dare un’opportunità di dignità, di ingresso nella società, di legalità. E proprio in quest’ottica, e con l’obiettivo di dimostrare che si può cambiare vita e intraprendere percorsi di legalità nonostante si provenga da contesti o famiglie a stretto legame con ambienti criminali, il garante ha chiesto che del suo staff faccia parte Antonio Piccirillo, il figlio di quel Rosario che inchieste dell’Antimafia e dichiarazioni di collaboratori di giustizia hanno indicato ai vertici della mala nella zona della Toretta, a Napoli.
Piccirillo, 25 anni e un lavoro in un b&b cittadino, ha scelto di non seguire le orme paterne ma di studiare e lavorare onestamente. «Lo vorrei nel mio staff – conclude Ioia – perché possa venire con me nelle carceri e nelle scuole, per far capire ai padri in cella quanta sofferenza causano ai figli e ai giovani fuori quanto sia più utile impegnarsi nello studio e in un lavoro dignitoso».
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