Giuseppe Conte non vuole prendere nemmeno un caffè con Matteo Renzi. Eppure un tempo faceva colazione, pranzava e cenava con Matteo Salvini. Non può stare, ha aggiunto, in tutti i tavoli della politica. Eppure un tempo l’ex avvocato del popolo stava in tutti i governi della Repubblica. In ogni caso, ha decretato la fine del campo largo (per il momento, nessuno si illuda). Ed Elly Schlein cosa fa? Tace, e si tiene prudentemente alla larga dai bisticci tra i due litiganti. Ora, nel gioco per il potere le due dispensatrici della vittoria sono, diceva Machiavelli, la fortuna e la virtù. Ma il partner di un gioco non può essere un perdente per predestinazione. Il perdente per predestinazione non è un giocatore, è tutt’al più un giocato (da altri).

Cosa vuole fare il PD da grande?

Fuor di metafora, la verità è che ancora non si capisce – almeno chi scrive non capisce – cosa il Pd voglia fare da grande: rilanciare la sua vocazione maggioritaria con un progetto riformatore che sappia parlare a tutti gli italiani, o acconciarsi mestamente alla riedizione di un Ulivo in sedicesimo con i resti di una sinistra che ha scassato i conti pubblici, che fa l’occhiolino a Putin e agli antisemiti che ieri sono scesi in piazza a Roma, che balla alle feste arcobaleno a cui è sconsigliata la partecipazione degli ebrei, che plaude a chi occupa abusivamente le case popolari o imbratta di vernice (non sempre lavabile) monumenti e opere d’arte.

Le tappe

“Historia magistra vitae”, recita un celebre motto di Cicerone. Purtroppo ha sempre avuto pessimi scolari, chiosava Antonio Gramsci. Basta ricordare quanto avvenne alla metà degli anni Duemila. Nel 2005 la Gad (Grande alleanza democratica) viene rinominata l’Unione. Erede dell’Ulivo, la coalizione comprendeva una miriade di forze eterogenee: cattolici, riformisti, populisti (Antonio Di Pietro), comunisti di ogni tendenza, ambientalisti, pacifisti, radicali, socialisti, repubblicani, movimenti regionali e gruppi di carattere chiaramente clientelare (consumatori e pensionati). Nel 2006 nasce il governo Prodi II: 103 tra ministri, viceministri e sottosegretari (il più numeroso del dopoguerra) e 281 pagine di programma. Cade dopo un biennio di Vietnam parlamentare, sotto i colpi delle sue risse intestine. Del resto, come è noto, il diavolo e l’acqua santa non vanno molto d’accordo.

Mandare a casa Giorgia Meloni, ma per fare cosa?

Vengo al punto. Nel campo extralarge di quindici anni fa, un vero e proprio cafarnao di idee e di sigle, furono sufficienti cinque senatori dai flessibili principi per mandare a casa Romano Prodi. La segretaria del Pd crede sul serio di poter mettere la mordacchia a tutti coloro che sono favorevoli alla resa dell’Ucraina e straparlano del genocidio a Gaza di Israele, che vogliono l’abolizione del Job act e far “piangere i ricchi”, che imputano all’introduzione della concorrenza le disavventure della rete ferroviaria? Dobbiamo mandare a casa Giorgia Meloni, mi potrebbe rispondere. Già, ma per fare cosa?