Per il presidente cinese Xi Jinping, la nuova Via della Seta è un obiettivo prioritario. La Repubblica popolare considera la costruzione di questo enorme complesso di accordi economici, infrastrutturali e strategici come il simbolo della nuova globalizzazionemade in China”. Ma dietro la volontà di realizzare una rete di partnership, si cela una sfida geopolitica di fondamentale importanza in cui convergono gli opposti interessi di Pechino e Washington e quelli molto più complessi degli Stati europei.

Tra questi, un ruolo centrale lo ha l’Italia, unico Paese del G7 ad avere firmato un memorandum d’intesa con la Cina. L’accordo, siglato nel marzo del 2019 durante il primo governo di Giuseppe Conte, ha una validità di cinque anni, e a marzo 2024, in mancanza di una revoca scritta con un preavviso di almeno tre mesi, si considererà automaticamente prorogato.

L’Italia, in sostanza, deve decidere entro fine anno se vuole proseguire o meno nell’accordo. Ed è per questo che nelle ultime settimane il governo cinese ha sondato il terreno per comprendere le mosse dell’esecutivo a guida Meloni. È in questa dinamica che si è inserito il viaggio in Italia del direttore del dipartimento internazionale del Partito comunista cinese, Liu Jianchao. Un blitz di cui l’alto dirigente cinese ha parlato all’agenzia “Bloomberg”. “Sento che l’Italia è generalmente d’accordo con il concetto dell’iniziativa Belt and Road, con il suo possibile risultato, e sul promuovere la cooperazione nell’iniziativa” ha detto Liu Jianchao, che però anche sottolineato di essere conoscenza delle perplessità italiane nel rinnovare l’accordo.

La speranza cinese è che Meloni confermi il memorandum. Liu però sembra volere considerare vari scenari. E una frase del diplomatico può essere una chiave di lettura per comprendere se Pechino ha in mente un’exit strategy: “Penso che la cooperazione tra Cina e Italia possa essere realizzata attraverso vari mezzi”. Queste parole non implicano necessariamente il disinteresse cinese verso l’Italia. Anzi, probabilmente la scelta di non imporre la questione come un “aut aut” certifica che Roma è ancora al centro della politica di Pechino nel Mediterraneo e in Europa. La frase di Liu conferma però che l’enorme peso simbolico (e politico) del fare o meno parte della Via della Seta possa essere un ostacolo ai rapporti. E testimonia come la volontà di Xi di espandere gli interessi del proprio Paese in senso globale sia una scommessa tutt’altro che conclusa.

Una partita su cui da tempo hanno acceso le luci dei riflettori sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea, preoccupati dalla penetrazione degli investimenti cinesi nel cuore del Vecchio Continente e soprattutto dalla possibile trasformazione di queste partnership in accordi di natura strategica dai confini fin troppo indefiniti. La Via della Seta, nell’immediato futuro, non può certo rappresentare la sostituzione di Usa e Ue con la Cina, tantomeno da parte di un Paese inserito tanto nel blocco europeo quanto in quello atlantico come l’Italia.

Tuttavia, a preoccupare l’Occidente, in particolare Washington, sono due elementi. Il primo è la legittimazione che la nuova globalizzazione su modello cinese può ricevere da una conferma di questa iniziativa da parte di un Paese Ue, Nato e membro del G7 come è appunto l’Italia. Rischio che supera anche il valore commerciale di un accordo che, quanto a volume di affari, non è stato nemmeno così ampio come lo sono stati accordi non legati alla Belt and Road conclusi da altri partner: Francia e Germania in primis. Il secondo elemento è il timore, specialmente interno alla Nato e all’Ue, che eventuali inserimenti cinesi in settori strategici possano comportare un aumento della capacità di controllo di Pechino sullo Stato coinvolto nell’iniziativa.

Sono dubbi che non riguardano solo l’Italia. La Cina è da diversi anni impegnata in un progressivo rafforzamento delle proprie partnership con l’Europa, e lo dimostrano le varie iniziative bilaterali e multilaterali messe in atto dal governo di Xi con gli attori del Vecchio Continente. Con investimenti nei porti e nei sistemi infrastrutturali e con accordi commerciali con diversi Paesi, la Repubblica popolare si è costruita una rete di interessi che coinvolge di fatto tutto il continente. Inoltre – e questo è un punto fondamentale per comprendere le logiche di Pechino quanto i dubbi europei – la Cina ha blindato i suoi legami con tutte le regioni ai confini dell’Europa.

E questo fa sì che Pechino di fatto già incide sui suoi destini europei senza il necessario passaggio nella via della Seta. Dalla Russia “alleata senza limiti”, al Medio Oriente – un esempio su tutti l’accordo tra Arabia Saudita e Iran – fino alla penetrazione in Africa, il Dragone già “circonda” il cuore dell’Ue e preme tanto su di essa quanto sull’Italia. E lo fa con un senso di competizione che ha già concretizzato quello che gli analisti definiscono la “Global China”.

Roma si trova quindi a compiere questa scelta diplomatica in un contesto geopolitico estremamente complesso, in cui incide, inoltre, la nuova postura della Nato e dell’Unione europea. Nel summit di Madrid del 2022, l’Alleanza ha considerato per la prima volta il gigante asiatico come una “sfida”. Mentre Josep Borrell, a maggio di quest’anno, ha affermato che l’Ue considera la Cina “un partner, un concorrente e un rivale sistemico”. L’Occidente appare sempre più consapevole del ruolo di Pechino nel contesto globale. La palla ora spetta a Palazzo Chigi.