Manifestazione 5 ottobre, Lombardi: “Antisemitismo dilaga sempre di più, Daesh e al Qaeda potrebbero approfittare di pro-Pal e oppositori estremisti”

«La preoccupazione è rivolta più all’instabilità delle piazze, che al rischio attentati». Marco Lombardi è professore di Sociologia all’Università Cattolica di Milano e coordina ITSTIME (Italian Team for Security Terroristic Issues & Managing Emergencies), centro di ricerca dello stesso ateneo che, da 15 anni, studia il fenomeno del terrorismo. «Ci si aspettava che la guerra tra Israele e Hamas diventasse il Leitmotiv di al Qaeda e Daesh, per fomentare la violenza tra i loro adepti in Europa, invece non è stato così. O per lo meno non in maniera significativa». È passato quasi un anno dal pogrom di Hamas contro Israele. Da allora l’intensificarsi del conflitto ha portato al rischio escalation anche in Libano. L’Europa, come tutto sommato l’intera comunità internazionale, sembra essere incapace di fermare gli scontri. Al netto del percorso di pace – chiamiamola tale – che si vorrebbe imboccare, c’è anche il problema della sicurezza interna alla Ue.

Professore, qual è il livello di allerta oggi?
«C’è un’attenzione alta-medio alta su quello che sta succedendo. Prima del 7 ottobre non era così, ovviamente. Tuttavia il terrorismo di matrice jihadista resta da sempre il sorvegliato speciale per le istituzioni europee. Tutte le altre manifestazioni di opposizione sovversiva, per quanto non archiviate, sono ormai da anni meno incisive nei rapporti delle polizie nazionali».

Possiamo quindi prevedere un intensificarsi dei casi di estremismo?
«Era quello che ci si aspettava. Dopo il 7 ottobre il primo timore è stato un rigurgito degli episodi di jihadismo, che non si registravano da lungo tempo sul territorio europeo. Così non è stato».

E allora perché l’allerta?
«Perché la guerra Israele-Hamas ha fatto da detonatore a una serie di conflitti a bassa intensità che, quelli sì, erano passati in second’ordine da tempo. È aumentato l’antisemitismo. La piazza si è movimentata contro le istituzioni come non faceva da decenni. Ora è logico che è più preoccupante un attentato. Ma un clima di conflittualità permanente, com’è quello odierno, è meno gestibile. Un atto terroristico è, di fatto, più semplice da analizzare e gestire. Perfino da prevedere. Sai chi è il nemico, sai cosa può fare o ha fatto, segui quella pista».

Intende dire che la violenza diffusa non ha identità?
«Sono molto preoccupato per quello che potrebbe succedere il 5 ottobre a Roma, quando alcune organizzazioni hanno espressamente dichiarato di voler celebrare il primo anniversario dell’attacco di Hamas. Già adesso si stanno scaldando gli animi. Nonostante il divieto della manifestazione – sulla base delle nuove norme e soprattutto a seguito delle valutazioni sul campo – c’è il rischio che la situazione sfugga di mano. È facile trovare un punto di incontro tra certe istanze filo palestinesi, alcune opposizioni più estreme al governo e il banale desiderio di scendere in piazza per fare a botte, nutrito da altri ancora».

Questo però non è terrorismo.
«No. Però è uno scenario di instabilità facilmente strumentalizzabile. Senza aver pianificato una strategia, Daesh e al Qaeda potrebbero approfittare di una tensione alimentata sì da quel che succede in Medio Oriente, ma che vive di vita propria. Anche qui: l’opportunismo del jihad non è cosa nuova».
Un altro elemento di instabilità potrebbe venire da nuovi flussi migratori dovuti a un’eventuale guerra in Libano?
«È delicato parlarne. Prima di tutto i profughi dal Medio Oriente, dall’Afghanistan e ancor più dall’Africa sono a ciclo continuo. L’intensificarsi di un conflitto regionale non avrebbe delle ripercussioni così immediate. Più che il rischio terrorismo, c’è quello umanitario da mettere in conto. D’altra parte, l’immigrazione resta un potenziale vettore di jihadisti. Ci tengo a dirlo ben chiaro: gli immigrati, anche quelli illegali, non sono dei terroristi. Ma spesso i terroristi sono degli immigrati illegali. La disperazione che aleggia tra chi fugge da una guerra e ancor più il trattamento che spesso gli si riserva alimentano la collera di alcuni, che può portare a gesti estremi».
Professore, il sentimento intransigente a sostegno di Hamas è prevalente tra le nuove generazioni. Scuole e università cosa possono fare per invertire questo mainstream?
«Bisogna far capire ai giovani che le guerre sono una responsabilità di tutti. Il primo punto da combattere è il disinteresse. I ragazzi vivono nel paradosso di essere cittadini globali, perché sempre connessi, ma isolati nella loro rete di amici e follower sui social. Questo non permette loro di essere critici rispetto alle informazioni che ricevono. Chattando con un loro simile e così condividendo idee e informazioni coincidenti, sono convinti di essere nel giusto. Il mondo della rete, per quanto globale, imbriglia l’individuo nella sua bolla cognitiva, soffocando quel libero arbitrio che, invece, sarebbe proprio utile per capire cosa stia succedendo in Medio Oriente e non proiettare quelle tensioni qui in Europa».