Sono Ginevra.

Amo il calcio, l’ho sempre seguito e l’ho praticato per un breve periodo della mia vita.
Quando ho visto le immagini del bacio di Luis Rubiales alla calciatrice Jenni Hermoso, quasi non mi ha provocato scalpore. Ho guardato quell’immagine, riportata ovunque, da tutti i media, e ho dovuto essere accompagnata per mano dal racconto dell’accaduto prima di riuscire a provare quel nodo di disgusto, alla gola, al pensiero della natura di quel gesto. L’accaduto, invece che farmi riflettere su quello specifico evento, sull’indagare la consensualità o meno del bacio, mi ha fatto riflettere su di me. Perché io, donna, a maggior ragione abituata alle dinamiche esistenti tra allenatore e giocatrici, ho guardato a quelle immagini e nel mio subconscio non ho provato niente. Mi sono sentita in colpa per non provare lo stesso disgusto, la stessa rabbia, per non essere riuscita a formulare metà del pensiero di tutte coloro che esprimevano totale dissenso e disgusto verso quel bacio e la protezione data a quell’allenatore dall’universo calcistico.
Mi sono sentita una donna non fino in fondo, io, che ho sempre professato a favore della lotta per la tutela dei diritti delle donne, ma nemmeno sentivo in me risvegliarsi quella rabbia di fronte ad una violenza.

Mi sento parte stessa di quel sistema che per settimane ha preso tempo, ha provato a negare, a far calmare le acque prima che quell’uomo, che ha preso per le mani il viso di una donna e le ha impresso la propria bocca sulle labbra, si dimettesse. Parlare di quello come un bacio, lo ha romanticizzato, forse involontariamente, di romanticismo che scompare al guardare le immagini del Ct. Jorge Vilda che, con una mano strizza con noncuranza il seno di una delle sue collaboratrici, per esultare un goal.
Quel mio avvertire una mancanza di disgusto è forse il risultato di un disprezzo più profondo che mi rende assuefatta di fronte a ciò che mi fa solo repulsione, che mi ricorda un senso di colpa, di sapere di essere stata parte stessa di quel sistema. Lo sono stata quando a quindici anni, finito l’allenamento, l’aiuto allenatore mi ha palpata mentre camminavo verso lo spogliatoio. Ricordo la sensazione di sentire quella mano sul mio sedere, e di aver continuato a camminare. Non mi sono voltata. Ho continuato a camminare e di quelle mani che mi avevano toccata non dissi mai niente a nessuno, nemmeno a me stessa. A calcio non ho più giocato. Ho accampato scuse con chi mi chiedeva perché avessi lasciato la squadra, mi sono anche sentita dare della rinunciataria, della scansafatiche che non voleva più correre sull’ala di quel campo.
Ho preferito io stessa riconoscermi in quella che molla, piuttosto che riconoscere di essere stata vittima di uno sporco cinquantenne che lontano dalle luci del campo da calcio, mi aveva toccata così manescamente da volermi, forse, provocare una reazione. Oggi, quando vengo urtata accidentalmente, rimango ancora impietrita ed ogni volta, ho paura di non trovare, come allora, il coraggio di voltarmi.

Quel ‘bacio’ mi fa solo sentire in tutto il corpo la stessa sensazione di sottomissione che mi aveva fatta mollare ed andarmene. Sapevo, e so, che se mai avessi raccontato dell’accaduto, qualcuno avrebbe provato a reinterpretarlo. Lo avrebbe chiamato ‘pacca’, invece che molestia. Sapevo che io davanti a quelle mani, dovevo solo continuare a camminare, zitta. Mi sento ora parte di un sistema che pur di salvaguardare i suoi più alti interessi, quelli calcistici, anche sotto le luci di un intero stadio, con decine di telecamere puntate contro, non si indegna di fronte a quella che solo è, violenza. Figuriamoci, se al buio del mio campetto di calcio, le cose sarebbero andate diversamente.

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