Nel tentativo, pur nobile, di ridurre il debito pubblico, esploso durante la scellerata stagione dei bonus edilizi ed energetici, il governo italiano ha varato una Legge di Bilancio per il 2025 che sa di classico “paternalismo fiscale”. Ci viene riproposta la vecchia retorica dei “sacrifici,” questa volta per giustificare un prelievo straordinario su banche e assicurazioni, presentato come contributo necessario per finanziare il welfare e la sanità. Tuttavia, appare evidente che questo intervento non è altro che una sorta di “prestito forzoso” imposto agli intermediari finanziari, un espediente per farsi anticipare miliardi con l’obiettivo tattico di tenere i conti in ordine nel 2025 e 2026. L’escamotage del governo non tiene conto, inoltre, del fatto che ogni intervento fiscale penalizzante applicato su settori regolamentati e non sostituibili, come appunto banche e assicurazioni, finisce per essere traslato da monte a valle, ovvero viene progressivamente trasferito sui costi dei servizi finanziari e assicurativi che pagano, appunto, cittadini e imprese commerciali e industriali.

La pessima economia

Il ministro dell’Economia Giorgetti afferma: “C’è chi lo chiama tassa sugli extraprofitti, o contributo. Io lo chiamo sacrificio”. Ma l’economia che fa appello ai sacrifici è una pessima economia. Il sistema fiscale non è un codice morale, ma un meccanismo di incentivi che va progettato per incoraggiare la partecipazione di cittadini e imprese alla spesa pubblica, favorendo nel contempo la partecipazione al lavoro e l’iniziativa economica. Penalizzare il mondo finanziario e produttivo, come sta di fatto facendo il governo, mina la fiducia e compromette la crescita, trasmettendo agli investitori nazionali e internazionali il segnale di una chiara difficoltà finanziaria e di una sostanziale inaffidabilità e arbitrarietà del quadro fiscale di medio-lungo termine.

La famiglia tradizionale e le scelte reali

L’approccio paternalistico al Bilancio riflette una visione che vede la politica come arbitro delle virtù nazionali e promotore di un modello di Stato etico, ancorato alla triade Dio, Patria e Famiglia. Questo si riflette anche nelle misure previste per favorire – sulla carta – una maggiore natalità, come i bonus bebè, gli incentivi per le famiglie numerose e la “Carta per i nuovi nati”, un sostegno economico che cerca di incentivare le famiglie a fare figli. Tuttavia, molti studi socio-economici segnalano che l’incentivo fiscale ha un effetto marginale, se non nullo, sulla natalità. Si tenga conto che già oggi l’Istat registra che circa il 42% dei bambini nasce fuori dal matrimonio, un dato sociale che pone l’Italia in linea con la media europea: il modello di famiglia tradizionale che il governo sembra voler forzatamente imporre agli italiani (anche se non necessariamente ai propri ministri) non corrisponde più, in tutta evidenza, alle scelte reali dei cittadini. Questo è ancora più chiaro nelle nuove generazioni: tra le madri fino a 24 anni di età, la quota di nascite da genitori mai coniugati rappresenta circa il 55% del totale, contro il 28% di quelle oltre i 34 anni.

Perché la manovra deludente

Sebbene alcuni interventi – come la riduzione del cuneo fiscale, la revisione dell’Irpef e il bilanciamento dei bonus edilizi – siano da giudicare positivamente perché migliorano la progressività e stabilità del sistema fiscale sul fronte del lavoro e della previdenza, così come equilibrati appaiono gli obiettivi di medio termine, in linea con la prudenza fiscale imposta dal Patto di Stabilità, il contesto generale della Legge di Bilancio rimane deludente. Da una coalizione che si era presentata sbandierando la flat tax e la riduzione del carico fiscale, gli elettori si aspettavano un significativo snellimento e semplificazione del sistema fiscale. Invece, la manovra ci consegna una sorta di “forest tax”: una giungla di nuove tasse, ritocchi, bonus e incentivi frammentati che aumentano la complessità del sistema. Le imprese sono le principali vittime di questo disordine normativo, perché si vedono tolte gran parte degli incentivi e delle facilitazioni che pure negli anni scorsi avevano alimentato un importante ciclo di investimenti per l’ammodernamento tecnologico.

Non stupiamoci se le previsioni sugli investimenti delle imprese per l’anno prossimo risulteranno fortemente penalizzate. Qui il governo ha utilizzato un abile gioco di parole, affermando che “non ci sono nuove tasse sui cittadini”. Ma si tratta un inganno semantico: il vero peso fiscale viene infatti scaricato indirettamente sulle attività produttive, compromettendo produttività e crescita future. Per la politica fiscale di una democrazia liberale, le parole contano come le aliquote, perché forniscono le linee guida sulle quali si orientano le scelte delle imprese e dei lavoratori: il linguaggio paternalistico dei “sacrifici”, peraltro arbitrariamente e selettivamente imposti dalla politica, non è quello che ci si aspetta da un governo che voglia guardare alla crescita e all’innovazione.

Carlo Alberto Carnevale Maffè

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