L’appuntamento con la realtà arriva sempre e ogni coalizione di Governo, negli ultimi trent’anni in Italia, deve decidere se affrontarla o continuare a raccontare il libro dei sogni. Nemmeno l’Esecutivo guidato da Giorgia Meloni riesce a fuggire da questa regola di politica economica, nonostante i post sui social, le interviste e i retroscena tendano a far credere ben altro magari camuffando ad arte qualche misurata adottata in passata e fatta apparire come nuova. Il Piano Strutturale di Bilancio approvato venerdì 27 settembre in Consiglio dei Ministri è la bussola di ciò che Meloni e la sua coalizione farà nei prossimi mesi in economia.

Numeri

I numeri sono chiari e non lasciano molti margini. Giancarlo Giorgetti, infatti, ha creato una cornice, o una gabbia come dicono i detrattori, nel quale tutti i ministeri dovranno programmare i loro interventi per i prossimi sette anni. Il Piano Strutturale di Bilancio, secondo le nuove regole del Patto di Stabilità, ha un orizzonte temporale molto lungo e introduce un nuovo indice: la spesa primaria netta. Essa è rappresentata dalla spesa pubblica nominale al netto di quella per interessi, della spesa ciclica per la disoccupazione, delle misure discrezionali sulle entrate e della spesa relativa ai programmi dell’Unione. La spesa netta, rispetto al saldo strutturale (usato in precedenza), dovrebbe favorire maggiormente politiche anticicliche e dovrebbe meglio rappresentare la politica fiscale discrezionale dello stato membro.

I tassi di crescita adottati dal documento sono sempre intorno all’1,5 per cento, proprio l’indicatore che l’Unione Europea “suggerisce” per gli Stati membri, soprattutto per quelli che hanno “difficoltà” di bilancio. Essa, infatti, va dall’1,5 per cento del 2025 fino all’1,2 per cento del 2031. Nel corso del 2024, ricordiamo, la stima del rapporto Deficit/Pil è al 3,8 per cento; sarà del 3,3 per cento nel 2025 e del 2,8 per cento nel 2026. In parole povere: nei prossimi due anni, l’Esecutivo di Giorgia Meloni si impegna a realizzare una correzione di bilancio di circa 24 miliardi di euro. Una cifra molto importante che testimonia due ragioni di fondo.

Impegni con la realtà

La prima. Il Governo non vuole creare frizioni con la Commissione Europea. Non lo fa perché l’Esecutivo è diventato improvvisamente europeista ma perché sa che c’è in corso una procedura di debito eccessivo. Essa, in base alle nuove regole del Patto di Stabilità, prevede il rientro in quattro anni o in sette anni se l’Esecutivo si impegna a realizzare riforme strutturali che correggano l’andamento del debito pubblico. Insomma, se vogliamo avere più credito da Bruxelles dobbiamo impegnarci e dimostrare con le azioni e gli atti governativi la volontà di controllare le spese eccessive.

La seconda ragione riguarda i mercati. Da tempo, il debito pubblico italiano sta avendo un mercato tendenzialmente a favore. Basti pensare, ad esempio, che lo spread è in costante calo negli ultimi due anni: è passato dai 231 punti del 21 ottobre 2022 ai 134 punti della chiusura di ieri. È importante non sperperare questo capitale di fiducia tenendo conto di una cosa molto importante: il prossimo 22 novembre l’agenzia di rating Moody’s pubblicherà la revisione del dato italiano. Una diminuzione del rating, il cosiddetto downrating, sarebbe un problema enorme per il Paese che si troverebbe assegnato il livello “Junk”, cioè spazzatura, le cui conseguenze sarebbero di impatto pesante sui conti pubblici italiani. Cercare capitali con un rating simili comporta costi di accesso al credito molto più alti. C’è, infine, un motivo strettamente più pratico.

Per mantenere le promesse bisogna trovare i soldi e il Governo italiano ha difficoltà a reperire nuove risorse. Quelle in gioco serviranno per confermare il taglio del cuneo fiscale, la riorganizzazione delle aliquote Irpef, qualche piccolo impegno in sanità mentre per il resto c’è poco da fare. Non ci sono soldi per “seppellire” la Fornero, anzi l’Esecutivo sta studiando incentivi per stimolare i lavoratori a non andare in pensione; non si parla più di quota 41 mentre l’estensione della flat tax al momento è materia da social più che da azione di governo. Insomma, la propaganda è sempre molto diversa dalla realtà. Gli italiani lo capiranno guardando i loro portafogli.

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