100 anni fa la marcia cha aprì le porte al fascismo
Marcia su Roma, così Mussolini arrivò in treno nella capitale
Quando lavoravo alla Stampa una sera Gianni Agnelli mi invitò a cena nella sua magnifica casa romana sul Quirinale. Tralascio la vista onirica della città e gli arredi, ma non il quadro dipinto su entrambe le superfici della tela, montato a lama di coltello e che attraversava l’aria del grande salotto. L’autore era il futurista Giacomo Balla che su un verso aveva fotografato una gara automobilistica e sull’altro la Marcia su Roma, colta nel momento stravaccato delle cartacce e della stanchezza dei gitanti.
Quella marcia fu un grande rally al quale Mussolini si aggiunse ai manipoli e ai gerarchi arrivando da Milano in treno letto. Di foto e filmati ce ne sono a migliaia ma quel quadro coglieva la stanchezza per una vittoria annunciata e incassata senza colpo ferire. Da allora sono passati cento anni ed eccoci qui in mezzo a tutti i revival e gli editori che non se ne lasciano scappare una, figuriamoci il momento iniziale del governo di Mussolini molto prima che si trasformasse in dittatura. Fioccano libri ed articoli, proviamo a fioccare anche noi parlando di fatti che sono ancora appesi nell’aria come il quadro di Balla. Essendo nato nel 1940 non ricordo quasi nulla del fascismo salvo il centurione Sorgonà che durante la guerra scoprì per colpa mia un deposito di patate illegali sotto il letto di mia nonna: se ne prese quante ne poté portar via e la mia esperienza del fascismo finì lì.
Poi cominciò l’esperienza tramandata. Per prima, la versione ufficiale, semplificata ad uso delle scuole medie secondo cui, dopo la Grande Guerra, fame e disoccupazione provocarono tumulti e paura specialmente nelle reazionarie anime dei possidenti agrari terrorizzati all’idea che in Italia si instaurasse una dittatura come quella di Lenin. Del resto, i socialisti cantavano per strada “E noi farem come la Russia, e noi farem come Lenin”. Mia madre che era nata nel 1912 e dunque aveva dieci anni ed era una acuta osservatrice dalla terrazza di via Parione dietro piazza Navona mi raccontava quanto lei e suo fratello si divertissero a seguire i tafferugli, con qualche revolverata e molte bastonature fra nazionalisti in camicia azzurra, socialisti in camicia rossa e fascisti in camicia nera. Folclore a parte, era un società militarizzata che usciva dalla più feroce guerra militare di tutti i tempi e si ritrova in ogni canzone, comizio, dichiarazione una voglia di regolamento di conti e di guerra civile.
Non ho fatto altro, si può dire, che studiare come potevo il fascismo e le versioni sul fascismo dal dopoguerra in poi. E mi incuriosiva la personalità di questo Mussolini che prima di fare il duce e il dittatore era stato per molti anni un cospiratore e un estremista di sinistra che faceva stendere le lavoratrici sui binari delle tradotte che portavano i soldati in Libia e gli occhi allucinati da pazzo, la pistola sul tavolo, quando viveva da profugo a Trento controllato dalla Imperial Regia polizia austriaca mentre complottava con i socialisti rivoluzionari come Cesare Battisti e si vedeva con dei sudditi di Vienna come Alcide De Gasperi che. quando poteva, lo evitava. E poi gli anni a Ginevra nello stesso albergo di Lenin che in seguito giurò di non averlo mai incontrato mentre Mussolini fino alle ultime ore della sua vita si vantava di essere sempre stato “uno di loro, erano tutti miei figli e fratelli”. E diceva di fare il tifo perché in Italia arrivasse “l’Armata rossa e non gli americani”.
Faceva ancora il gradasso pochi giorni prima di morire conversando con un giornalista americano che gli chiese, dopo la disfatta, perché avesse inventato il fascismo. La risposta di Mussolini fu sfacciata ma paradossale perché conteneva un frammento di verità: «Non l’ho inventato io, ma gli italiani. Io l’ho soltanto organizzato e dato agli italiani quel che volevano. Se fossi nato in Inghilterra sarei probabilmente il leader laburista». Non era neanche vero: non aveva inventato neppure la camicia nera e l’uniforme che era quella usata dai reparti speciali detti “arditi”. Lo stilista inconsapevole era stato un certo maggiore Bossi cui avevano affidato i nuovi corpi speciali che erano la novità della Grande Guerra: avevano cominciato i tedeschi con le Sturmtruppen, i Commandos inglesi e così via per vestire le unità d’assalto, ma i magazzini erano vuoti e bisognava contentarsi dei calzoni e gli stivali avanzati dalla cavalleria, il fez dei bersaglieri e la camicia nera notturna.
Un altro pezzo forte della retorica fascista era il famoso “coltello fra i denti” che passò in lingua a significare il colmo dell’esasperazione che precede l’azione e che gli arditi serravano con le mandibole mentre attraversavano i fiumi. Mussolini aveva raccattato materiali di magazzino e seguitò a farlo saccheggiando le coreografie di D’Annunzio, dal saluto romano al grido greco inventato “eja eja alalà” per avere una specie di “Hip hip hooray”. Di suo, ci aveva messo l’abolizione del “lei” in odio della borghesia. Tornando alla versione concordata e semplificata per quel che accadde un secolo fa, fu convenuto che il fascismo era l’opera di un solo mascalzone fiancheggiato dagli sbandati usciti dalla guerra, al soldo degli agrari e dei padroni del vapore minacciati da comunisti e socialisti, sicché fu trovata la soluzione di prezzolare le bande fasciste che rimettessero le cose a posto.
La Marcia su Roma rappresentò una prova di forza teatrale perché ormai il capo dello Stato, il piccolo re detto dai soldati “sciaboletta”, si era convinto a dare l’incarico all’uomo forte, all’uomo nero in ghette e cilindro. E benché avesse potuto dar ordine ai regi carabinieri di fermare l’orda con la forza, non lo fece ma anzi gli dette l’incarico costituzionale di formare un governo di coalizione. Soltanto dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti e due anni di astensione dei deputati antifascisti riuniti nella sala dell’Aventino, il governo di Mussolini diventò dittatura dichiarata. La fine è nota, anche se prima di arrivare alla fine accaddero moltissimi eventi che oggi sembrano surreali. Tra questi, l’opposizione militare a Hitler durante il primo tentativo di occupare l’Austria. Mussolini pronunciò un discorso contro Hitler di inaudita violenza chiamandolo barbaro e razzista, e spostò alcune divisioni corazzate sul Brennero.
Ma la storia di questo mese di ottobre che cade cento anni dopo quello della Marcia su Roma è una storia dei nostri giorni certamente collegata all’altra attualità che è la vittoria di Giorgia Meloni e con tutte le reazioni e combinazioni connesse. Questa circostanza produce sicuramente delle distorsioni nella lettura della storia e del fascismo in particolare. Devo dire che quando ho scritto un ritratto di Giorgia Meloni, ho imparato molto dal New York Times che, pur essendo per natura editoriale molto sospettoso di questa leader italiana di destra, ha usato un tono non eccitato e dagli articoli del giornale americano ho imparato che le radici ideologiche di Giorgia non stanno nella paccottiglia nostalgica del regime fascista ma nei romanzi di Tolkien, da Hobbit al Signore degli Anelli.
Ma anche con l’ingresso in scena dei personaggi della Terra di Mezzo, la grande tragicommedia del fascismo italiano non si semplifica ma richiede attenzione. Quando ho proposto questo articolo avevo (ed ho) in mente di dare notizia dei libri di due giornalisti che conosco bene: Aldo Cazzullo con il suo Mussolini il capobanda ed Ezio Mauro con L’anno del fascismo, 1922 cronache della marcia su Roma. Libri che si aggiungono alla sterminata letteratura sulla dittatura fascista e sulla relazione tra quella dittatura e la politica italiana di un secolo fa e di oggi. Ho ripreso in mano anche i volumi preziosissimi di Roberto Vivarelli sulla Storia delle origini del fascismo- L’Italia dalla Grande Guerra alla Marcia su Roma.
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