Sono trascorsi ben ventidue anni da quella notte in cui Marco Biagi rientrando da Modena – dove insegnava nella Facoltà di economia – venne assassinato sotto casa in via Valdonica a due passi dalle Due Torri. Benché avesse denunciato le minacce che riceveva per il lavoro che stava svolgendo, quella notte Biagi era difeso soltanto dalla sua bicicletta, perché gli era stata tolta la tutela che gli era stata assegnata anni prima. E non ci fu verso di indurre le autorità a rivedere quella scellerata revoca, nonostante le numerose segnalazioni allarmate. Il professore era comunque impegnato a difendere nel contesto di un dibattito aspro e fazioso le idee e le proposte raccolte nei testi elaborati.

Quando fu ucciso Biagi ed io ci conoscevamo da trent’anni. Col tempo si era consolidata la nostra amicizia, mentre sul piano professionale i nostri rapporti erano intensi e complementari. Quella notte sotto i portici bui di via Valdonica, in quell’intreccio di viuzze con l’acciottolato ho certamente perduto un amico ma ho trovato una missione nella vita: quella di difendere le idee di Marco Biagi, consentire che avessero nel dibattito quella legittimità che gli era stata negata dai “terrapiattisti” del diritto del lavoro, prigionieri di un concetto talebano del rapporto di lavoro standard considerato immutabile.

L’inventore della precarietà

Biagi si azzardò a valicare quel confine al di là del quale la dottrina e la politica aveva scritto “hic sunt leones”. Nel retro pensiero di tanti dirigenti politici e sindacali e di operatori del diritto, Biagi rimane l’inventore della precarietà, come se la Luna esistesse solo perché qualcuno la indica col dito. Marco era convinto che la flessibilità dei rapporti di lavoro fosse un’esigenza ineludibile e che il compito del giurista fosse quello di definirne le regole a tutela del lavoratore. In un articolo pubblicato su Il sole 24 ore del 16 novembre 2001 Marco scriveva: “Se si vuole davvero iniziare una lotta senza quartiere al lavoro irregolare, bisogna disporre di tutti gli strumenti idonei allo scopo. Si riducono le tutele? – si domandava – Forse per gli occupati, ma non per chi cerca lavoro”. Marco Biagi era finito nelle cronache nazionali del diritto del lavoro e delle relazioni industriali quando Stefano Parisi, City Manager del Sindaco Gabriele Albertini lo aveva incaricato di contribuire all’estensione del c.d. Patto per Milano, che altro non era se non un tentativo di includere gli “ultimi”, i “dannati della terra”, gli immigrati senza occupazione.

La rottura con la Cgil

Così Marco divenne l’animatore e il protagonista del patto Milano lavoro. Lo scopo di quell’intesa era essenzialmente inclusivo per i settori emarginati del mercato del lavoro e presupponeva livelli retributivi d’accesso inferiori ai minimi contrattuali, il che offendeva i ‘sacri princìpi’. Fu quella la circostanza in cui maturò la rottura con la Cgil (che non volle aderire all’intesa). Cominciò, allora, la litania del ‘tradimento’. Il nome di Marco fu trovato in un volantino di un gruppo terrorista. Così fu disposto un provvedimento di tutela che divenne l’assillo degli ultimi anni di vita di Biagi, dedicata a trovare forme regolate e regolari per l’inclusione sociale, nella consapevolezza che la pretesa di trasformare chiunque in un lavoratore stabile si trasforma – nei fatti – in una preclusione, perché per divenire occupati occorre essere prima di tutto occupabili.

Lavoro subordinato, parasubordinato o autonomo?

Oggi è questa la missione affidata – fino ad ora con scarsi risultati – alle politiche attive del lavoro. Biagi diceva che la medesima prestazione poteva essere eseguita tanto nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato che parasubordinato o autonomo; la differenza stava nelle modalità di svolgimento della prestazione stessa.Anche la giurisprudenza è arrivata al medesimo approccio nei confronti di questa distinzione che è stata basilare fin da quando il diritto del lavoro ha trovato una sua specificità nell’ambito del diritto civile. Secondo Biagi non aveva senso applicare a condizioni di lavoro differenti lo schema del tradizionale lavoro subordinato come condizione per il riconoscimento dei diritti. Il principio della flessibilità non significava per lui uno “sconto” ai padroni, ma una maggiore aderenza alle situazioni di fatto, con il supporto di uno Statuto dei lavoratori, corredato da uno zoccolo comune di diritti, poi adeguati alle diverse condizioni di lavoro. La pretesa di imporre un modello unico è stata fonte non solo di abusi e di frodi, ma anche di veri e propri impedimenti all’occupazione. I casi da citare sarebbero tanti. Ci limitiamo ad uno recente: al c.d. decreto dignità osannato come il vendicatore dell’utilizzo del lavoro a termine. Dopo i primi dodici mesi erano contemplate regole praticamente proibitive, per la proroga o il rinnovo del contratto. I sindacati si accorsero per primi che con quelle norme si costringevano le imprese ad impelagarsi in un assurdo turn over obbligatorio, reperendo personale a termine nuovo perché non era più possibile avvalersi di quello il cui contratto era scaduto. Il decreto esplicò i suoi effetti perversi durante la crisi sanitaria (il milione di posti di lavoro perduti in quel periodo, erano in grande prevalenza a termine) e costrinsero il governo giallorosso a sospendere l’applicazione di quella normativa poi ampiamente rivisitata dal governo Meloni.

Marco Biagi sosteneva che non esiste un incentivo economico tale da convincere un’azienda a superare, nelle assunzioni, un disincentivo di carattere normativo. La proposta di direttiva europea per la disciplina del lavoro nella gig economy tiene conto dell’esigenza di qualificare il rapporto di lavoro dei rider non a priori (con le stimmate della subordinazione) ma in base alle modalità di svolgimento della prestazione.