La serie fenomeno del momento e l'esperienza in carcere di Raffaele Criscuolo
“Mare fuori? Quando ero detenuto a Nisida era peggio della serie, l’ho vista con mio figlio”
Quando domani in prima serata su Rai2 andrà in onda l’ultima puntata della terza stagione di Mare Fuori, Raffaele Criscuolo sarà dall’altra parte dell’oceano. E con molte probabilità non sarà tra quelli che, pur avendo visto tutta la serie, si piazzeranno davanti allo schermo per risolvere il giallo, il mistero: è vero o no che in onda andrà una versione estesa di un paio di minuti della 12esima puntata, come si vocifera sui social (ma senza alcuna prova), che rivelerà un finale diverso della serie fenomeno del momento? È da questo hype spropositato che si può misurare la “Marefuorimania”, un storia ambientata in un carcere ispirato a quello napoletano di Nisida ma ambientata al Molo San Vincenzo, quartier generale della Marina Militare.
“L’ho vista tutta e si avvicina alla realtà che si vive all’interno del carcere. Anzi non si vede proprio tutto, Nisida è anche peggio”, racconta a Il Riformista Raffaele Criscuolo che nel carcere di Nisida c’è stato. Due volte, una volta per uno scippo e un’altra volta per rapina a mano armata. Due anni e mezzo tra Nisida, comunità e domiciliari. Ci aveva raccontato in un’altra intervista di un’infanzia difficile, del senso di abbandono che ha vissuto, figlio di un padre che non lo voleva e di una madre giovanissima che non riusciva a mantenerlo. La prima rapina per gioco, poi per non chiedere soldi alla famiglia. Di Nisida aveva parlato come di una “scuola criminale” più che di un istituto, “brutte amicizie, persone poco raccomandabili”.
Pizzaiolo, ha 28 anni, un figlio con cui ha visto la serie. La guardavano insieme e al piccolo spiegava quello che succedeva nella fiction. Su Raiplay, a febbraio, Mare Fuori ha superato 105 milioni di visualizzazioni, oltre il 40% una platea composta da giovani con meno di 25 anni. “Piace un po’ a tutti, io mi sono anche appassionato. Per noi ragazzi che abbiamo vissuto una realtà come Nisida in una serie del genere verrebbe naturale recitare una parte, noi l’abbiamo vissuta quella situazione e in qualche modo la viviamo ancora oggi”. Lui ha sempre sognato di fare l’attore, è stato selezionato a un provino un per corto che si girerà in autunno. Coltiva quel desiderio ma prima partirà per l’America perché qui, a Napoli, non c’è spazio per lui.
Le è piaciuta la serie?
L’ho vista tutta. Si avvicina per tanti aspetti alla realtà che ho vissuto nel carcere di Nisida. Certo non c’è tutto, posso dire che è anche peggio. Io lì dentro ho cominciato a fumare marijuana. Mare Fuori bene o male racconta quello che succedeva all’Ipm. Ogni giorno tarantelle, gli schieramenti, il gruppo di ragazzi che voleva comandare. Sa come si diceva? ‘Meglio Poggioreale che Nisida’.
E come mai?
Perché a Poggioreale ci sono adulti, persone mature che portano rispetto, nel senso: ‘io mi faccio la galera mia e tu la tua’. A Nisida invece si atteggiavano tutti a Professore e’ Vesuviano. Ogni giorno c’era qualcuno che si svegliava e decideva che era il Raffaele Cutolo della situazione. E tu che pensavi: da dove è uscito mò questo? Era quello un po’ il problema, una continua esibizione: volevano farsi vedere, farsi notare.
Rispetto ad altre fiction a sfondo criminale le è sembrata più fedele alla realtà?
Sì. I soprannomi, le affiliazioni, i laboratori, i corsi di pizzaiolo e di restauro. Questo sì. Personalmente feci un corso di Turtle Point, ci prendevamo cura delle tartarughe, le nutrivamo, le accudivamo fino a quando non stavano bene e le rilasciavamo in mare. È stata un’esperienza bellissima che mi ha dato molto.
Cos’è che non torna nella serie?
I ragazzi erano molti di più. Ovviamente la fiction è romanzata, si deve dar modo ai personaggi di evolvere. E i permessi non erano così frequenti. Nella serie quando escono invece si ammazzano pure, invece spesso neanche potevi uscire, dovevi rimanere ai domiciliari. E dentro le celle non erano aperte così frequentemente, anzi quasi mai. Non incrociavamo così spesso le ragazze, le riuscivamo a vedere da un punto ma era impossibile incontrarle. E non c’erano tutte quelle coltellate. Spesso scoppiavano le risse, quello sì.
Così spesso?
Ogni giorno ti svegliavi e dovevi farti rispettare perché purtroppo lì è così. Non puoi mostrarti debole altrimenti diventi il “soggetto” del carcere, il fesso della situazione. “T fann a’ bott” come diciamo a Napoli, ti bullizzano, ti mettono sotto.
Mare Fuori è un successo clamoroso. Pensa possa aiutare a far conoscere e a capire il contesto delle carceri minorili?
È una bella cosa tutto questo successo però, allo stesso tempo, penso che i ragazzi nelle carceri vengono dimenticati, abbandonati a loro stessi. Non è vero che lì c’è il comandante che ti prende a cuore, che quando esci ti segue per non farti fare guai. Nella serie c’è il comandante, c’è la direttrice che seguono i ragazzi e alla fine sembrano come se fossero una famiglia. Questo a Nisida non c’è.
Lei dopo la prima detenzione è stato arrestato di nuovo,
Non sono stato seguito, sono finito di nuovo per strada. Quando uscii chiesi di poter frequentare il corso da barman che avevo cominciato dentro e mi dissero che non era possibile. Se metti in carcere un ragazzo, gli fai fare cento corsi e poi lo lasci solo, non cambia nulla, non serve a niente. Dopo qualche mese ero di nuovo a Nisida.
Ha visto la serie con suo figlio.
L’ho messo accanto a me e gli spiegavo quello che succedeva. È una serie che arriva un po’ a tutti. Gli dicevo che gli orari, l’organizzazione era più militaresca, era quasi come se fossi un soldato. Si evitava anche di giocare a pallone perché da un fallo nasceva uno schiaffo e da uno schiaffo una rissa. Gli ho detto che è un posto in cui bisognava stare attenti, starsene sulle sue, capire come interagire con gli altri e con gli ambienti. Per esempio il personaggio del Chiattillo (uno dei protagonisti, figlio della Milano bene, ndr) viene da un contesto completamente diverso a quello della criminalità e deve imparare necessariamente ad affrontare persone e discorsi per difendersi e farsi rispettare. A mio figlio ho fatto capire che quei ragazzi si trovano lì perché hanno sbagliato nella vita e che in carcere non sconti soltanto la pena, non affronti l’esperienza e basta. È una continua lotta, tutti i giorni.
Lei ha cambiato vita, fa il piazzaiolo. Però ha deciso di lasciare Napoli, perché?
Avevo aperto la mia pizzeria ma a causa del covid ho dovuto chiudere. Ho deciso di partire per la California, San Francisco, anche se mi rattrista tanto. Purtroppo le condizioni a livello lavorativo sono troppo precarie, i contratti non reggono. Si parla tanto dei migranti che arrivano in Italia ma non di emigranti. Tanti ragazzi di Napoli sono costretti a partire, è piuttosto triste per i giovani che per realizzarsi devono decidere di andare all’estero.
Cosa le ha lasciato Nisida?
Ancora oggi mi porto delle conseguenze dentro, addosso. Soffro un po’ di ansia, di insicurezza. Parto per l’America anche per crescere personalmente, per affrontare i miei obiettivi e migliorarmi. Più volte avevo avuto quest’occasione ma non ce l’avevo mai fatta, non ero mai riuscito a partire. Ora ho deciso, ci provo. Quella vita ti lascia delle conseguenze serie, dure da farci i conti. Le vittime di tutto questo non si trovano soltanto sottoterra.
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