Il commento
Mario Draghi il vero stratega anti-Trump, due tipi diversi di pragmatismo a confronto
Quando il giorno dell’esito elettorale in USA ho scritto che la lezione americana consisteva nel pragmatismo estremo dimostrato dal vincitore intendevo cogliere – in estrema sintesi – la spiegazione più veritiera del voto per come è stato espresso in modo netto dal popolo americano. Un pragmatismo che consiste nell’aver individuato i temi su cui giocare la leadership cogliendo e rappresentando i bisogni e le aspettative della gente.
Sono perciò confortato nel veder confermata da un editoriale del Washington Post questa chiave di lettura per avvalorare tale interpretazione. Noi europei e noi italiani in particolare siamo abituati ad esprimere ragionamenti politici basati su una narrazione complessa che finisce per perdere di vista i fondamentali, argomentando in modo divisivo e radicato su presupposti più teorici che pratici. Per questo nel nostro Paese la polarizzazione post-ideologica è fondata su retaggi del passato che ciclicamente ritornano, creando peraltro una sorta di incomunicabilità e difficoltà rappresentativa tra paese legale e paese reale. Per questo inoltre esser parte dell’U.E. dopo il lungo cammino storico e istituzionale successivo alla seconda guerra mondiale, lascia trasparire le difficoltà dello stare insieme piuttosto che le ragioni di una possibile unità di intenti rispetto alle potenzialità che questo salto di qualità atteso da decenni ci consentirebbe di realizzare.
Troppe primazie nazionalistiche da esportare in sede comunitaria, troppi punti di vista differenti, eccessiva e dispendiosa necessità di mediazione per conseguire un risultato condivisibile, mirando alto, puntando ad una visione lungimirante del ruolo dell’Europa nel consesso internazionale. Gli USA sono una federazione di Stati con modalità funzionali ed istituzionali complesse ma ciò non ha impedito a Trump – ma anche alla stessa Harris- di proporre i medesimi temi in ogni contesto, i punti nodali di un programma di governo che prescinde a conti fatti dai sei fusi orari che accorpano il Paese ma che punta invece ad una sostenibile unità di intenti rispetto alle diaspore trasversali della società americana e che si riassumono in contenuti condivisi piuttosto che su peculiarità esportate dalle singole realtà territoriali. Inflazione, sicurezza sociale, regolamentazione dell’immigrazione, decadenza del ceto medio, rilancio della produzione, limitazione delle importazioni attraverso una mirata politica di dazi da imporre ai prodotti dei competitor internazionali.
Il teorema dell’America first pungola l’orgoglio dell’appartenenza e tende ad una azione di rilancio che caratterizzi le peculiarità e le potenzialità del ruolo politico ed economico degli USA in uno scenario che va davvero configurando un nuovo ordine mondiale: resta da vedere fino a che punto questa spinta identitaria non declinerà verso derive di protezionismo e isolazionismo. Lo scacchiere planetario registra l’emergere di protagonisti nuovi con cui occorrerà misurarsi con pragmatismo tra posizionamenti strategici, alleanze e antagonismi. Chiudere le frontiere – anche psicologiche e relazionali – del confronto indebolirebbe l’America nuova che Trump vuole disegnare e credo onestamente che non sarà questa la via che sarà imboccata perché la politica necessita di oculatezza e mediazioni, di rapporti internazionali che sciolgano i dilemmi e le tragedie delle guerre in atto ed è proprio questo uno degli obiettivi che il tycoon si è prefissato di conseguire. Lo scenario delle ambizioni dell’Europa non è proprio lo stesso: il vecchio continente appare indebolito da punti di vista diversi e da situazioni critiche in atto in alcuni Paesi membri dell’U.E. pur sotto diversi profili di considerazione.
Tuttavia si avverte la necessità di intensificare i processi di integrazione europea pena la decadenza consolidata verso un ruolo complessivo di subalternità e soccombenza. Nel recente summit di Budapest la presenza e la proposta di Mario Draghi si è rivelata determinante per decifrare e interpretare gli scenari internazionali e per proporre scelte condivise. L’ex premier italiano e governatore della BCE ha illustrato con chiarezza le linee di indirizzo che la Comunità Europea dovrebbe intraprendere, tenendo conto della nuova realtà americana. Innanzitutto recuperando “uno spirito unitario con cui riusciremo a trovare il meglio da questi grandi cambiamenti. Andare in ordine sparso? Siamo troppo piccoli, non si va da nessuna parte. L’Unione Europea è pronta a una eventuale guerra commerciale con gli Stati Uniti? Ho appena detto che bisogna negoziare con l’alleato americano, in maniera tale da proteggere anche i nostri produttori europei”. Partendo dal proprio “Documento sul futuro della competitività europea” presentato il 9 settembre alla presidente della Commissione europea a Bruxelles, Draghi ha sottoposto ai leader europei un vero e proprio progetto da cui ripartire…tenendo conto che “la stabilità geopolitica sta diminuendo e le nostre dipendenze si sono rivelate vulnerabili. Il cambiamento tecnologico sta accelerando rapidamente”.
L’Europa ha perso ampiamente la rivoluzione digitale guidata da Internet e gli aumenti di produttività che ha portato: infatti, il divario di produttività tra l’UE e gli Stati Uniti è in gran parte spiegato dal settore tecnologico. L’UE è debole nelle tecnologie emergenti che guideranno la crescita futura. Solo quattro delle 50 aziende tecnologiche più importanti al mondo sono europee. Eppure, il bisogno di crescita dell’Europa è in aumento. L’UE sta entrando nel primo periodo della sua storia recente in cui la crescita non sarà sostenuta dall’aumento della popolazione. Entro il 2040, si prevede che la forza lavoro si ridurrà di quasi 2 milioni di lavoratori all’anno. Dovremo fare maggiore affidamento sulla produttività per guidare la crescita. Si può ragionevolmente sostenere che il Rapporto Draghi – elaborato e presentato due mesi prima del voto americano- contiene gli antidoti di politica economica utili per fronteggiare il pericolo di un possibile declino di rappresentanza e di ruolo strategico dell’Europa nel contesto planetario.
Un’analisi riproposta a Budapest che contiene tra l’altro indicazioni circa “la possibilità di aumentare la spesa per la Difesa”, Draghi ha osservato infatti che “è possibile spendere il 2% del Pil per la difesa rispettando il Patto di stabilità. Oggi bisogna decidere cosa fare perché questa è la nuova situazione “. Affermazione che va letta come anticipazione ad un possibile disimpegno USA a sostegno della resistenza e dell’indipendenza dell’Ucraina. Una ipotesi di assunzione di responsabilità che il Ce.S.I. ha quasi preconizzato ove i negoziati di pace che Trump intraprenderà con Putin comportino la soluzione di una cessione di territori ucraini alla Russia, ciò che costituirebbe un potenziale pericolo per l’Europa. Insomma a Budapest Draghi ha suonato la sveglia, augurando all’U.E. di ritrovare “uno spirito unitario” che è il vero convitato di pietra in Europa, oggi. Accreditandosi con autorevolezza, forte di un’esperienza istituzionale di alto profilo, come un possibile stratega che sa indicare la strada per uscire dalle secche dell’irrilevanza, in un quadro di mutamenti del nuovo ordine mondiale a cui l’elezione di Trump ha impresso una brusca accelerazione. Come dire: pragmatismo vs pragmatismo.
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