Mario Draghi (il cui avvento in luogo di Giuseppe Conte -uno che ha chiuso in casa l’Italia senza nemmeno un dibattito parlamentare e indebitandola per centinaia di miliardi, altro che pericolo fascismo gridato ridicolmente oggi- fu determinato dal mio collega direttore, Matteo Renzi, e cui io mi vanto di aver votato la fiducia) riappare e in uno speech illuminato.

Draghi descrive la mancata equivalenza attesa di globalizzazione-uguaglianza, dice che la globalizzazione ne richiede una analoga giuridica e politica, specie a fronte di mercati del lavoro tiepidi, investimenti pubblici in calo, come le quote di lavoro figlie della delocalizzazione dei posti di lavoro, e afferma che l’opinione pubblica occidentale è orientata a pensare (complice, aggiungo io, l’informazione incapace di essere sexy, nel senso di popolare, e di livello) che i cittadini comuni giochino un gioco imperfetto, che elimina milioni di posti di lavoro, mentre i governi e il settore aziendale restano indifferenti.

Tutto vero. Poi sottolinea l’esigenza di affrontare il cambiamento climatico, senza però prendere posizione circa il nesso di responsabilità con la condotta umana (cosa che cambia assai le eventuali politiche di risposta a un problema comunemente ammesso, anche se storicamente ciclico), e prevede economie a continuo sali e scendi. Ancora, richiamando l’importanza della politica fiscale anche alla luce del mutevole equilibrio geopolitico, Draghi fissa l’asticella sulle condotte politiche: lungimiranza e cessione di maggiore sovranità all’Europa, nel nostro caso. Il che richiama l’importanza della prossima tornata elettorale. Quel che manca secondo me è l’ammissione e la relativa soluzione all’assioma per cui, se la globalizzazione ha in effetti sottratto larghissime fette di mondo alla povertà, sta però condizionando le forme di Governo.

La velocità del commercio e delle sue ricadute sociali, anche in termini di crescita, richiede altrettanta velocità ed efficienza degli stati protagonisti. E tra i protagonisti, ahinoi, i più veloci ed efficienti sono i regimi, anziché le democrazie (eccezion fatta per l’America).

Dunque, dovessi incrociare Draghi, gli chiederei: “Non è il caso di ridurre le spese pubbliche, e renderle più efficienti, per aver provviste sufficienti a rendere lo stato meno invadente nelle tasche dei cittadini, e di varare riforme istituzionali che rendano le nostre democrazie veloci ed efficienti come il commercio che a suo stesso dire cambia il mondo e i suoi equilibri?

E poi: discutiamo spesso della contrapposizione di élite e popolo. Guarda caso, solo dove l’élite è deludente o un po’ cialtrona. Si può ammettere che l’élite, una buona élite, serve al popolo? Perchè eccome se gli serve. E deve essere ambiziosa, illuminata, e saper spiegare e farsi capire. Allora avremo popoli in forma. Altrimenti, sarà la fine. Delle élite, ma anche del popolo. Il nostro.