Assolto perché il fatto non sussiste nel processo di primo grado Mario Oliverio, neppure rinviati a giudizio Nicola Adamo ed Enza Bruna Bossio. Quello che fu, fino più o meno un anno fa, lo stato maggiore del Pd in Calabria, esce a testa alta dalle inchieste giudiziarie dopo aver perso le elezioni regionali del 26 gennaio 2020, che da quelle indagini e da una feroce campagna mediatica furono fortemente condizionate. Questa volta il tonfo della Dda di Nicola Gratteri è pesante, pesantissimo. E anche il Partito Democratico si ritrova con le ossa rotte e la vergogna di aver abbandonato i suoi figli, da Bassolino a Oliverio, nelle mani dei più fetidi circhi mediatico-giudiziari.

Mario Oliverio era il presidente della Regione Calabria, eletto nel 2014 con il 61% dei voti, era un esponente potente del Pd, quando nel dicembre del 2018 la magistratura si accorse di lui e gli rovesciò addosso una serie di accuse per fatti che riguardavano appalti. Da una parte avrebbe accelerato un iter, dall’altra ne avrebbe rallentato un altro. Non si riuscì a mettergli le manette, il gip non concesse neppure i domiciliari. Ma l’umiliazione di una sorta di confino come si faceva con i mafiosi sì, quella gli fu gettata addosso, con l’obbligo di dimora al suo paese in provincia di Cosenza, San Giovanni in Fiore. La prima informazione di garanzia parlava solo di un abuso d’ufficio, ma l’atteggiamento degli uomini della procura di Catanzaro fu da subito molto aggressivo, tanto che, come ebbe modo di lamentare l’avvocato Vincenzo Belvedere (che insieme a Armando Veneto era il difensore di Oliverio), all’udienza del riesame si presentarono in tre. E parlarono tutti e tre, con grande prosopopea, contro il presidente della Regione Calabria. Non si era mai visto.

Lo stesso procuratore Gratteri, in un’intervista a Rai Uno, diceva che «con quasi 17 milioni di euro la Regione ha contribuito a ‘ingrassare’ alcune cosche grazie a lavori non eseguiti o eseguiti in minima parte». E annunciava novità e sorprese. Infatti nel frattempo Oliverio aveva già ricevuto un’altra informazione di garanzia, questa volta per corruzione. I suoi complici? Il consigliere regionale Nicola Adamo, altro uomo forte del Pd, e Enza Bruno Bossio, deputata dello stesso partito. Quelli che oggi, per decisione del gup, non vengono neppure rinviati a giudizio.

Mario Oliverio reagì con forza, iniziò subito uno sciopero della fame, dichiarò che non avrebbe consentito a nessuno, «neanche a Gratteri, di infangare la mia storia». Ma il suo incubo di materializzò subito e prese le vesti del presidente del consiglio regionale Nicola Irto del Pd, il quale riuscì a mettere insieme il peggio delle tradizioni comuniste e quelle del grillismo, con una dichiarazione in cui, dopo la doverosa riverenza alla magistratura, insultò il suo collega e compagno, mostrando anche grande sgrammaticatura giuridica: «Sul piano umano – disse – auguro al presidente Oliverio di poter chiarire nel più breve tempo possibile davanti alla magistratura la propria posizione». Requiescat in pacem. Il Pd stava con il procuratore Gratteri e voleva che lo si sapesse. Era iniziata, con un anno di anticipo, la campagna elettorale. Anche perché, nel frattempo, qualcun altro aveva dato sepoltura alla candidatura di quello che pareva il più temibile avversario politico nel centrodestra, il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto. Anche lui cecchinato da avvisi di garanzia, difeso dalla sola Forza Italia, ma spedito subito via da un bel calcio nel sedere da parte di Matteo Salvini.

A poco servirà il fatto che nel mese di marzo del 2019 la Corte di cassazione avesse ribaltato il teorema accusatorio della procura nei confronti di Oliverio e annullato l’obbligo di dimora con un giudizio tagliente che denunciava un “chiaro pregiudizio accusatorio” da parte degli uomini di Gratteri. Ormai i giochi politici sono fatti. E anche un po’ sfatti. Gli ultimi mesi del 2019 sono caratterizzati dal nuovo blitz della Dda di Catanzaro che tenta di rafforzare il proprio potere, mentre Nicola Gratteri annuncia urbi et orbi che lui sarà il Giovanni Falcone di Calabria e che nella sua terra si celebrerà il maxi-processo più grande del secolo, il Maxi.

La campagna elettorale di Calabria, che sfocerà nella vittoria di Jole Santelli il 26 gennaio di un anno fa con il 55%, sarà fortemente condizionata dalla retata di Gratteri, con i partiti intimiditi e pronti a fare a gara per mostrarsi meritevoli agli occhi dei pubblici ministeri. Con un contorno di giornalisti travestiti da prefiche ululanti che inveivano stracciandosi vesti e capelli. Oliverio fu costretto a rinunciare alla candidatura, al suo posto arrivò Pippo Callipo, grande imprenditore calabrese del tonno, cui fu affidato il compito di tenersi alla larga dalle sigle di partito e possibilmente anche dalla politica. Lui fece anche di più, e di peggio. Disse subito che ci voleva un ricambio della classe dirigente e che con lui presidente nessuno avrebbe più dovuto bussare alla porta di “politici, burocrati e mafiosi”.

La paura, il terrore, il ricatto furono il sale di gran parte di quella campagna elettorale. Jole Santelli seppe tenersi in disparte e vinse. Soprattutto per merito, e per il grande amore che ha sempre nutrito per la sua terra. Ma anche perché tutto il resto era verminaio. Un imprenditore per bene come Callipo ridotto a mettere insieme la politica e la mafia per farsi bello agli occhi di qualche toga. L’Espresso che dedica quindici pagine a quelle elezioni, titolando “Calabrexit”, un invito a scappare da una Regione in cui, secondo i piccoli torquemada, intere famiglie di politici erano sporcate dalla ‘ndrangheta. Senza riportarne i nomi, ricordiamo di un candidato che ha il torto di essere il figlio di un altro che è stato sindaco ai tempi dei “boia chi molla” e che ha un fratello indagato; un’altra ha il padre condannato; uno è considerato “vicino” a persona coinvolta nell’inchiesta sui rimborsi ai consiglieri regionali; e uno “continguo” a un imprenditore coinvolto in un’inchiesta di mafia, anche se poi assolto.

Padri, mogli, fratelli, suoceri, amici e vicini di casa di un candidato. Nessuno viene risparmiato. Sembra che il direttore d’orchestra della campagna elettorale, dopo il blitz del 19 dicembre 2019, risieda in qualche palazzo di giustizia. Finisce alla gogna persino il professor Francesco Aiello, che è il candidato del Movimento cinque stelle, ma che viene infilzato dai grandi giornalisti d’inchiesta del Fatto Quotidiano. I quali avevano spalancato gli armadi più segreti del professore, scoprendo che aveva avuto un cugino. Un cugino vero, di primo grado. Uno con cui forse Francesco Aiello aveva giocato da piccolo. Ma che da grande, mentre uno brillava nella carriera universitaria, si era fatto ammazzare nel 2014 a Soveria Mannello in una sparatoria tra cosche. Così, mentre il povero professore si affannava a fare il disconoscimento di cuginanza, quasi gli fosse piombata addosso una sorta di ombra di Banco, la pietra tombale sulla sua candidatura fu posta da Nicola Morra, presidente della Commissione bicamerale antimafia e finto calabrese. «Mai farò campagna elettorale per questo candidato», sentenziò. E chissà se sia stato lui a farlo perdere. Ma de minimis… eccetera.

Quel che ci si domanda oggi, mentre il sostituto di Gratteri ha ancora chiesto per Mario Oliverio quattro anni e otto mesi di carcere (con che coraggio, dopo che la stessa Cassazione aveva rimproverato pregiudizio accusatorio!) è se esista ancora qualche partito (o qualche Matteo Renzi, che fu anche segretario del Pd), tra quelli che si definiscono “moderati” o socialdemocratici o liberali che abbia il coraggio di dirsi innocente. Innocente rispetto al fatto di aver preso ordini dai pubblici ministeri per far loro decidere i sindaci o i presidenti di Regione. Gli unici veramente innocenti sono le brave persone che arrivano dopo. Come Jole Santelli che ha vinto contro Callipo una partita che, senza Gratteri, sarebbe stata giocata tra Oliverio e Occhiuto. Proprio come venticinque anni fa il bravo Marco Formentini (scomparso pochi giorni fa) divenne sindaco di Milano sulle ceneri del centro sinistra dopo le inchieste di Di Pietro.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.