Sapete chi era Mario Picchi? Immagino di no, a meno che non siate stati assidui lettori dell’Espresso negli anni Settanta, dove era redattore e curava la acuminata – e per me allora fondamentale – rubrica “Sottotiro”. Nato a Livorno nel 1927 e poi trasferitosi a Roma, giornalista culturale, e anche saggista, scrittore, traduttore (dal francese), dirigente editoriale, ha dedicato la vita alla scrittura, e la sua è stata una scrittura finissima, innervata da una intelligenza morale e da una erudizione straordinarie. Ma oggi chi ne serba memoria, al di là degli studi specialistici? Anche perciò va accolto con entusiasmo questo Carteggio, 1949-1979 (Edizioni di storia e letteratura) di Picchi con Aldo Palazzeschi, uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento, curato con acribia e amore da Anna Grazia D’Oria.

Si tratta di 61 lettere e 24 cartoline che compongono come in un puzzle «la storia di un’amicizia affidata negli anni non a scambi teorici ma al proprio sentire nella quotidianità» (come leggiamo nella introduzione). In loro due generazioni si incontrano per parlare di letteratura (autori, premi, la loro stessa scrittura), di amici comuni (da Marino Moretti a don Giuseppe De Luca), di vecchiaia e di città (Roma, Venezia, Firenze, Parigi). Si comincia dal 1949, quando Picchi esordì come critico con una intervista a Palazzeschi, allora all’apice della fama, apparsa sulla “Fiera letteraria”. Da lì prende avvio una relazione di amicizia intensa e continuativa, testimoniata da questo epistolario. Palazzeschi, percepito dal giovane interlocutore come padre e maestro, mostra nei suoi confronti un affetto pieno di sollecitudine: ad esempio in occasione di un viaggio di Mario Picchi a Venezia con la moglie si affanna con scrupolo a trovare loro una sistemazione dignitosa.

Quando Picchi nel 1960, con una raccolta di racconti, entra inaspettatamente nella rosa dei sei finalisti del premio Strega, è solo un outsider, per di più avversato da Maria Bellonci, madrina del premio. Ora Palazzeschi, di solito tranquillo e disincantato, «si trasforma per Mario in macchina da guerra», e tanto si impegna da farlo arrivare quinto e così promuoverlo in libreria. L’epistolario si conclude con la notizia di un furto rovinoso a casa di Palazzeschi, poco prima della morte dello scrittore, novantenne, nell’agosto 1974. Il volume è corredato da alcune foto che ritraggono Palazzeschi e Picchi nella vita quotidiana (specie il secondo): accanto alla macchina da scrivere, leggendo un libro o il giornale, con i familiari, in qualche cena e occasione conviviale. Palazzeschi ha un’aria sorniona e ingenua, nobilmente ironica, Picchi lo sguardo ardente, mite e affilato. Per dare solo un’idea degli scambi tra i due, sempre ispirati a un tono familiare, affettuoso, ricordo l’incipit di una lettera di Palazzeschi da Parigi, immersa in un gelo polare, dove nel metrò c’era un pover’uomo «che non aveva punto voglia di ridere e si messo a ridere di gusto vedendomi leggere il suo biglietto “Caldo opprimente”, lui coperto di lana fino agli occhi».

Ma ci sono innumerevoli lettere che mostrano la grande stima intellettuale reciproca, l’interesse dell’uno verso la produzione letteraria dell’altro. Forse meno scontata da parte di Palazzeschi, che nel 1964 scrive a proposito del romanzo di Picchi Il muro torto (pubblicato da Einaudi in quell’anno), e dopo averne già letta una prima stesura: «Ho sentito più in evidenza la parte lirica (il paesaggio romano), che in alcuni punti diviene vera e propria poesia… bravo Mario, ne sono felice per quanto non ne avessi mai dubitato». Nella seconda sezione sono raccolti gli scritti di Picchi su Palazzeschi, dei quali vorrei sottolineare – al di là delle considerazioni sempre penetranti sull’opera dell’autore delle Sorelle Materassi (che, come i pesci, cresce mantenendo “sempre la forma primitiva”) – lo sguardo sempre attento sulla cultura circostante, sull’universo letterario del nostro paese. Direi una autentica vocazione da “critico dell’ideologia”, insofferente di appartenenze e conformismi.

A proposito del ritratto di Palazzeschi, che affiora dal mosaico dei saggi, mi limito a citare la pagina in cui contrappone lo scrittore, «funambolo di se stesso» che non ha mai riscritto la propria storia, a Charlie Chaplin, che con le «svenevolezze sentimentali» di Luci della ribalta volle dare un «senso tra allegorico e anagogico» ai suoi film. E poi quando paragona il rifiuto di Palazzeschi ad avere telefono e radio «al rifiuto di firmare quei manifesti e quegli appelli che sono un troppo comodo alibi per sfuggire al più vero impegno». Per quanto riguarda la vocazione di “moralista” e critico della società segnalo un intervento sulla rivista “Belfagor” nell’estate 1970, in cui deplora le mode che divampano fulmineamente in Italia (da Lukacs a Marcuse, da Lévi-Strauss allo strutturalismo, “cicloni” che irrompono in un mondo chiuso, «bisognoso di sostegni a cui abbarbicare la sua incerta realtà: e ogni volta questo mondo si richiude in sé per digerire rapidamente la novità, da cui sperava chissà quale illuminazione», per ritrovarsi più affamato di prima.

Infine, ci appare oggi come un apologo senza tempo su potere e cultura quell’articolo dell’Espresso – 29 giugno 1975 – in cui ritrae un compiaciuto Amintore Fanfani, il «viso pieno di bonomia e di unzione, tra uno sfarfallio di sorrisi, di ammiccamenti, di mossette argute» di fronte a giornalisti che dovrebbero incalzarlo e invece «gli fanno da spalla» (qualche riga dopo ricorda i pomeriggi del leader democristiano passati in compagnia degli intellettuali convocati a discutere le magnifiche sorti, tra «gorgheggi e coccodè di soddisfazione», tutti in cerca di prebende, incarichi e pensioni…). Soffermandosi poi sui quadri di Fanfani, e sul suo enfatico annuncio di passare le notti a leggere libri, così commenta: «L’artista che fa politica è penoso, ma c’è qualcosa di peggio: il politico che fa arte». A lui Picchi contrappone Palazzeschi: «Nel suo sorriso c’era sempre un tanto di meraviglia, quasi di incredulità per quello che l’esperienza gli rovesciava addosso».