Mark Rothko, uno dei più grandi pittori moderni, pose fine alla sua vita cinquant’anni fa, il 25 febbraio 1970, nella casa-studio di Long Island, a New York: prima inghiottì due flaconi di sonnifero, poi si tagliò le vene con il rasoio. A parte la lama, uno spettacolo non dissimile da quello messo in scena vent’anni prima da Cesare Pavese, all’albergo Roma, di fronte alla stazione di Porta Nuova a Torino, comprensivo del memorabile epitaffio scritto a mano: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».

Rothko, che non lasciò messaggi pubblici, era nato a Dvinsk, in Russia, nel 1903, da una famiglia di ebrei praticanti, emigrato in America da bambino insieme ai genitori senza conoscere la lingua inglese. Il classico ragazzo neo-arrivato, diremmo oggi, per distinguerlo da quelli di seconda generazione. Cresciuto a Portland, nell’Oregon, si trasferì presto sulla sponda orientale degli States, studiò a Yale, ma impiegò abbastanza tempo per trovare davvero se stesso. Soltanto alla fine degli anni Quaranta compaiono le sue meravigliose tele astratte in blu, nero, rosso e grigio. Le guardi e senti vibrare due corde solo apparentemente antitetiche: da una parte sembrano saracinesche di magazzino alla periferia di Los Angeles, dall’altra non puoi fare a meno di pensare alle icone sacre coi tremolanti lumicini attorno. Come se uno spirito western fosse entrato per avventura estetica nell’abside ortodossa.

Avvicinarsi alla Rothko Chapel di Houston, il capolavoro supremo, percorrendo in automobile la Highway 45, come fa Alessandro Carrera, professore di Italian Studies e di World Cultures and Literatures nella locale università, quando vi accompagna gli ospiti importanti, parcheggiare nello spazio antistante la Menil Collection, camminare lungo il Wilson Tunnell, un sottopassaggio che evita ai visitatori di attraversare la Main Street, entrando nella cripta dove sono esposti i leggendari pannelli del grande artista, significa apprezzare coi propri occhi uno dei più tipici ribaltamenti percettivi del ventesimo secolo: «Non era l’arte a imitare l’America suburbana. Era vero il contrario».

Come se i distributori di benzina posti accanto ai centri commerciali della sterminata periferia statunitense fossero idealmente il frutto delle opere di Mark Rothko, il cui sentimento della realtà sarebbe stato introiettato dagli architetti, dagli ingegneri, insomma dai costruttori del paesaggio contemporaneo, allo stesso modo in cui, mi permetto di aggiungere, estremizzando la metafora, i cipressi sulla via Cassia, nell’ideazione originaria dei loro giardinieri, avrebbero incredibilmente copiato gli sfondi che stanno dietro alle scene dipinte dai grandi maestri toscani. Arriviamo sotto le torri di San Gimignano e, nel vortice di case, tetti, alberi e cielo, pensiamo ai quadri di Giotto. Facciamo rifornimento di carburante appena fuori dall’aeroporto Intercontinentale intitolato a George Bush e ci vengono in mente Kline, Rothko, Pollock e de Kooning. Non c’è soluzione di continuità fra arte e natura. Credere che una sia subalterna all’altra sarebbe un’illusione ottica. Perfino l’isola più selvaggia custodisce nel proprio seno un nucleo di civiltà. E nella migliore delle polis non smettono di ringhiare i lupi feroci.

È questa una delle numerose vertiginose intuizioni associative che potremmo ricavare da Il colore del buio (Il Mulino, pp.125, 12 euro), un libro che Carrera ha concepito, come il suo precedente e per certi versi contiguo La consistenza della luce (2010), alla maniera di una guida d’autore per introdurci alla conoscenza dell’ultima folgorante creazione di Rothko. Stiamo parlando di una delle stazioni finali dell’arte occidentale, come potrebbero essere Il Castello di Fraz Kafka, il Finnegans Wake di James Joyce, Aspettando Godot di Samuel Beckett, il Kreuzspiel di Karlheinz Stockhausen. Con la differenza che mentre queste pietre miliari paiono condurci di fronte a muri invalicabili, quella specie di camera oscura che ospita i pannelli della cappella di Houston chiede di vivere a tutti noi un’esperienza spirituale a metà strada fra la devozione della preghiera e il brivido provocato dai pigmenti grigi e neri.

Rothko diventò pittore seguendo una tensione interiore che lo fece sprofondare nell’abisso. Eppure fu sempre presente in lui la speranza di un possibile rinnovamento: da una parte le finestre murate  della Biblioteca Laurenziana di Michelangelo, dall’altra il rosso degli affreschi nella Villa dei Misteri di Pompei. L’oscurità dei pannelli texani è assoluta, come un tunnel senza uscita, non ha nulla a che vedere con la Darkest Hour vissuta da Winston Churchill nel bel film di Joe Wright: non c’è nessun 1945! Quando ci mettiamo seduti di fronte alle sue lastre dobbiamo essere pronti ad affrontare uno strapiombo infinito simile allo scenario mozzafiato, nascosto e indicibile, dei Pulcinella tiepoleschi di Ca’ Rezzonico. E tuttavia, lascia intuire Alessandro Carrara, nella Rothko Chapel pulsa una luce invisibile, che ognuno di noi dovrebbe provare a scrutare dentro di sé prima che fuori: è quello il colore del buio.