Il caso
Massacrati per 5 anni e poi assolti: fine dell’incubo per 30 militari

Assolti «perché il fatto non sussiste». Lo ha stabilito Giovanna Carla Pasquale, giudice monocratico del Tribunale di Napoli, che ha così messo fine all’incubo di trenta militari campani in forza all’Esercito e all’aeronautica sui quali pendeva l’accusa di ricettazione. Secondo il pm che ha condotto l’inchiesta, Giancarlo Novelli, i militari erano riusciti a superare il concorso per arruolarsi dopo aver ricevuto, in cambio di un’ingente somma di denaro mai esattamente quantificata, le risposte alle domande contenute nel test di ammissione.
L’assoluzione con formula piena arriva dopo quella di un civile accusato di aver venduto le risposte corrette. Nessun imbroglio, dunque, e niente denaro in cambio di informazioni riservate. I fatti risalgono al 2016 quando, secondo l’accusa, i trenta indagati avrebbero pronunciato al telefono frasi ambigue riconducibili all’acquisto del cosiddetto algoritmo capace di rispondere a tutti i quesiti somministrati ai partecipanti al concordo. «L’accusa si basava su alcune intercettazioni telefoniche, ritenute poi inutilizzabili, composte da poche parole non contestualizzate – spiega Michela Scafetta, avvocato di cinque dei trenta militari coinvolti finiti a processo e poi assolti – Una mia assistita è stata rinviata a giudizio sulla base di poche parole pronunciate nel corso di una telefonata con un interlocutore non identificato: “Ok, per tre”. La frase si riferiva alla prenotazione di un tavolo per la cena, visto che la ragazza, quella sera, aveva deciso di pernottare in albergo per poi raggiungere, la mattina seguente, la sede del concorso». Secondo la Procura partenopea, invece, la donna si riferiva al test di ammissione e alle risposte ricevute in anticipo.
Ovviamente la stampa dedicò alla faccenda i soliti titoloni in prima pagina. E l’opinione pubblica si accanì sugli indagati, successivamente rinviati a giudizio, dando libero sfogo alle proprie pulsioni giustizialiste, come spesso accade. Per cinque anni, dunque, i trenta militari campani hanno dovuto sopportare l’immancabile gogna mediatica e i commenti al veleno dei colleghi. Alla fine, però, è arrivata l’assoluzione che, se da un lato ha posto fine al calvario giudiziario, dall’altro ha aperto un altro fronte. Nel dicembre del 2020, infatti, i trenta militari processati, che nel frattempo avevano continuato a prestare servizio, erano in procinto di entrare nell’Esercito e nell’Aeronautica in pianta stabile. Il requisito principale per superare questo step e continuare la carriera militare è la fedina penale pulita, al pari del momento in cui ci si arruola. I trenta militari, però, risultavano imputati, sicché per loro è scattato il congedo con effetto immediato. Risultato? Niente lavoro e niente stipendio.
In questi anni le loro vite sono andate avanti, certo, sebbene col peso di un’accusa grave. Alcuni hanno persino messo su famiglia. Ora dovranno fare i conti con un’assoluzione arrivata dopo cinque anni dai fatti contestati loro dalla Procura, ma soprattutto con gli stravolgimenti che la giustizia ha determinato nelle loro vite private e carriere. «Oggi i miei assistiti – spiega l’avvocato Scafetta – dovranno aspettare che la sentenza passi in giudicato e poi fare ricorso al Tar. Dobbiamo sperare che i giudici amministrativi diano loro ragione e che stabiliscano il reintegro immediato all’interno dell’Esercito e dell’Aeronautica. Di certo c’è un contenzioso amministrativo da affrontare, con tutte le incertezze annesse e connesse, perché il reintegro in servizio non segue automaticamente l’assoluzione».
Nel frattempo resteranno senza soldi e senza lavoro. «Tra 60 giorni il giudice renderà pubbliche le motivazioni della sentenza – conclude Scafetta – Si tratta senza dubbio di un errore di superficialità commesso dalla Procura di Napoli». È normale? Siamo sicuri di poter chiamare “giustizia” un sistema che indaga e processa per anni e anni, distruggendo vite e carriere di indagati e imputati che vengono spesso e volentieri assolti? Il fatto non sussisterà, come nella formula assolutoria usata dal Tribunale di Napoli, ma di certo sussiste la facilità con la quale si passa dalla condizione di servitore dello Stato a quella di vittima della giustizia. Ed è piuttosto preoccupante.
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