La maternità surrogata è, da sempre, una questione assai complessa e controversa, ricca di implicazioni etiche, sociali, e naturalmente – scusate se è poco – anche biologiche, destinate perciò stesso a creare dibattito, scontro culturale e ideologico, competizione politica. Tutto giusto, non potrebbe essere diversamente. Anche chi vi scrive – ma è una opinione personalissima, che non impegna in alcun modo PQM – nutre non poche riserve e perplessità di fronte alla sola idea che la donna che cresca un figlio in grembo lo possa fare sapendo di doversene separare. E anche il punto di vista del figlio mi pare troppo spesso trascurato.

La ricerca del consenso a costo zero

Dunque, in questo numero di PQM affrontiamo nel modo più laico possibile una questione ricca di implicazioni e di problematiche, nel rispetto profondo di ogni diversa opinione che se ne possa maturare. Ma qui, ancora una volta, il tema è prepotentemente un altro, perché questa questione serissima è diventata in questi mesi l’occasione per l’ennesima, desolante farsa. La ricerca del consenso a costo zero, ormai lo hanno capito anche i muri, conosce una sola strada: il diritto penale, brandito come una clava o, meglio ancora, come un vessillo bellico. L’ossessione di mandare messaggi (securitari, etici, ideologici) ha questa peculiare caratteristica: crea danni devastanti in termini di equilibrio e razionalità del sistema penale ma al contempo, molto spesso – direi quasi sempre – non raggiunge l’obiettivo tecnico che la nuova norma si proporrebbe.

Non esiste nessun reato universale

Il famoso “reato universale” di maternità surrogata è un caso esemplare di questa sciagurata ma ormai sistematica attitudine del legislatore italiota. Vi prego di leggere le fulminanti, cristalline considerazioni critiche di Tullio Padovani, uno dei grandi giuristi italiani che spesso ci onora della sua preziosa, amichevole partecipazione ai buoni propositi di questo nostro PQM. In poche parole, non esiste nessun “reato universale” se non nelle velleitarie intenzioni propagandistiche dei proponenti. L’uso di questo biblico aggettivo, che in quelle grottesche intenzioni vorrebbe comprendere nella sua furia sanzionatoria chiunque, italiano o straniero, compisse ovunque, in Italia o all’estero, l’infamia della gravidanza surrogata, ha dovuto arrendersi alla impossibilità tecnica di quel proposito, segnato da alcuni princìpi generali del nostro diritto penale alquanto inderogabili.

La sceneggiata della riforma che non riforma un bel nulla

Lo straniero che commetta all’estero un fatto che, in quel Paese, non è considerato reato non potrà mai essere punito una volta messo piede in Italia, se non nelle stravaganti ambizioni di qualcuno dei non pochi politici nostrani che amano parlare di cose che non sanno. Per il resto, se parliamo del cittadino italiano che va a fare la surrogata all’estero, si scopre che il nuovo “reato”, mantenendo una pena inferiore ai tre anni, non aggiunge proprio un bel nulla a quello precedente (perché era già previsto dalla legge come reato, dal 2004): è perseguibile previa autorizzazione del Ministro della Giustizia, perché tanto prevede l’art. 9 comma 2 del nostro Codice penale.

Eccoci, quindi, di fronte alla inutile sceneggiata di una riforma che non riforma (per fortuna, aggiungo) un bel nulla, ma che riesce comunque a fomentare furibondi dibattiti televisivi e mediatici, i quali sono alla fin fine il vero obiettivo di questo legislatore in perenne favore di telecamera. Tutto molto deprimente, non trovate anche voi? Buona lettura.

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Avvocato