Bagliori, qualche lampo, un brontolio lontano. Al netto della solita, angusta cerchia di giornalisti accampati nelle stanze degli inquirenti, si comincia a vociferare con una certa insistenza della possibilità che Matteo Messina Denaro vuoti il sacco e cominci a collaborare con la giustizia. Per carità, sussurri, sibili, mezze frasi del boss rese ancora in modo informale e circoscritto, ma può darsi che qualcosa bolla in pentola. La metafora del fumo e dell’arrosto è abusata, ma se qualcuno ben introdotto nella Sicilia investigativa parla di una borghesia palermitana in fibrillazione per paura che il capo vuoti il sacco nell’aria ci deve pur essere qualcosa.

La questione è interessante, perché già uno dei fratelli Graviano, pur senza collaborare con la giustizia, aveva rilasciato qualche dichiarazione innanzi ai giudici calabresi, aveva lasciato intravedere qualche scenario toccando, anzi sfiorando, le corde di sensibilità di una ben individuata fazione dell’antimafia italiana ancora alla ricerca del terzo livello e dei mandanti occulti. È evidente che la collaborazione con la giustizia di M.M.D. è non solo sommamente auspicabile, ma costituirebbe la prima vera svolta nello scenario del contrasto alle mafie e alle loro collusioni e infiltrazioni che – da quasi due decenni – vede solo figure di secondo e terzo piano approcciarsi ai benefici carcerari e rendere dichiarazioni solitamente (salvo le chiacchiere) collocate al medesimo, modesto livello di importanza.

Potrebbero essere utili due considerazioni, una più generale, l’altra più ravvicinata alla posizione del capomafia siciliano appena catturato. Su un piano generale il regime duro di 41-bis reca, nella sua stessa struttura, l’ammissione di una grave sconfitta dello Stato contro le organizzazioni criminali e una contraddizione. Se lo scopo dichiarato del carcere duro e (spesso in tandem) del pur nuovo regime di ergastolo ostativo è quello di impedire che i boss, dall’interno dei penitenziari, possano continuare a dirigere i loro clan, allora vuol dire che poco o nulla si è fatto in questi anni per destrutturare le cosche le quali sarebbero pronte all’unisono a obbedire ai capi non appena ne fosse reso più lasco l’isolamento in cella o recuperassero brandelli di libertà con qualche misura alternativa. Ovviamente non è così. Dal 1992 in poi i successi sono stati enormi su tutti i versanti e, giustamente, il ministro Nordio e il capo dell’Ufficio legislativo, Mura, sono stati ben fieri a Londra, nel corso di un importante consesso internazionale, di evocare la grande capacità investigativa e operativa della giustizia italiana su questo versante, vero modello per tutti.

Certo non bisogna cullarsi negli allori e bearsi dei risultati conseguiti. Il procuratore nazionale Melillo, in una importante intervista di qualche giorno or sono, ha per la prima volta manifestato la preoccupazione per l’esistenza di un gap tecnologico e formativo tra le forze di polizia italiane e quelle dei paesi più vicini nei settori più avanzati della minaccia mafiosa e terroristica (dark web, monete elettroniche e via seguitando). Ma questa è, per così dire, la prossima frontiera dell’impegno dello Stato, tuttavia guardando allo stato delle cosche i cui capi sono a regime duro i successi brillano e sono indiscutibili. Quindi sia il regime a 41 bis che l’ergastolo semi-ostativo si fondano su una sorta di post verità che è arduo confutare, ossia che fuori da quelle carceri c’è poco o nulla sia in termini di uomini che di patrimoni e che tutto punta, invece, a stimolare collaborazioni di giustizia o meno nobili pentimenti. E qui la cornice generale si incrocia con le scelte di M.M.D. e le sue possibili iniziative. L’uomo è stato pesantemente sbeffeggiato dagli investigatori con la pubblicazione di un nugolo di audio e messaggi, con l’esibizione di materiale sequestrato che mostra all’evidenza che non si è in presenza di un monaco zen votato alla causa mafiosa, ma che – come tanti – ha fragilità, passioni, esaltazioni, cedimenti.

Rispetto alla generazione di Riina e Provenzano, alle loro parsimoniose esistenze e alle loro vite circoscritte ai propri familiari, come dire, MMD ha mostrato un “dinamismo” esistenziale che ne ha pesantemente scalfito l’immagine ieratica e carismatica che pur voleva trasmettere e consegnare ai posteri. Al momento appare come un piccolo viveur di provincia, poco interessato al crimine e molto di più a una sorta di gaudente e godereccio approccio alla vita reso possibile dalla latitanza in un piccolo paese. Certo salterà fuori altro, ma il discorso non può ipotizzare scenari e futuribili, deve piuttosto confrontarsi con lo stato dell’arte odierna. Probabilmente è una belva ferita nell’orgoglio e minata nella salute da un aggressivo tumore, potrebbe scegliere la via più pericolosa, ma anche la più remunerativa per i suoi disegni: squadernare una serie di dichiarazioni (anche facendo finta di ignorare che viene intercettato) che possano scuotere il paese e mettere in fibrillazione le istituzioni non solo siciliane.

Al minimo spiraglio in questo senso un nugolo di articoli, di interviste, di trasmissioni televisive e di talk show sezionerebbe ogni sillaba, ogni parola, ogni sospiro alla ricerca di conferme per le teorie complottiste che per anni sono state alimentate in certi circuiti in mancanza di prove decisive. A settimane giungerà innanzi alla Corte di cassazione il procedimento sulla “Trattativa” il cui epilogo i pubblici ministeri e gli imputati, secondo traiettorie contrapposte, intendono ribaltare o modificare. L’occasione è, per così dire, troppa ghiotta per non lasciarsi sfuggire qualche frase, qualche dichiarazione, qualche sibilo che possa rinfocolare un clima di scontro nel paese; e quello potrebbe essere solo l’inizio di una strategia mediatica volta a ribaltare una bruciante umiliazione. Sia chiaro, non è in discussione che gli inquirenti, con pazienza e fatica, sapranno discernere le menzogne dalle possibili verità, ma ci vorrà un mucchio di tempo e una nazione, già sfibrata da feroci contrapposizioni su questo terreno, vivrebbe l’ennesima stagione di veleni deturpanti l’immagine di persone e istituzioni. È solo uno scenario, per carità, ma è amara la constatazione che una democrazia matura possa essere gettata in un precipizio di sospetti e ricatti da un feroce boss che, ormai, non ha nulla da perdere e che tanto sangue innocente ha versato.