Matteotti, il gigante incompreso. Dal martirio alla damnatio memoriae

Giacomo Matteotti risulta essere un personaggio fondamentale nella storia italiana non solo per il dramma verificatosi nel 1924 ma per tutte le posizioni politiche e culturali da lui assunte in quegli anni cruciali. Matteotti è stato un autentico gigante per larga parte incompreso dal movimento operaio a lui contemporaneo. Successivamente, nel secondo dopoguerra, egli è stato dimensionato come una grande figura martirologica e poi ridotto a santino del Psdi.

La discussione

Il punto vero è che contro Matteotti si scatenò l’aggressione fascista, fino all’assassinio operato dalla Ceka di Mussolini, ma che sull’altro versante ci fu una damnatio memoriae ad opera di Gramsci, di Longo e del Partito comunista. Successivamente egli non fu rivalutato nella giusta misura neanche da Craxi malgrado che il leader socialista abbia avuto il merito storico di aver rilanciato il riformismo. Poi dopo il 1989 tutti si sono dichiarati riformisti.
Su un punto decisivo, la valutazione del fascismo, Matteotti si è distinto anche da Turati con cui peraltro condivise la strategia fondata sul famoso discorso “rifare l’Italia”. Però sul fascismo Turati sbagliò analisi, perché per lui si trattava di un fenomeno effimero, prodotto dai riflessi della guerra, che sarebbe stato riassorbito nello spazio di pochi mesi, per cui non bisognava accettare le provocazioni. Una linea suicida che contribuì a disarmare i socialisti. Invece Matteotti capì l’organicità dell’uso della violenza nella strategia fascista che la esercitava in modo sistematico per conquistare il potere.

Qui però veniamo alle ragioni della netta discriminante da parte di Matteotti nei confronti dei massimalisti e della frazione comunista. Questa differenza emerse in modo molto netto anche rispetto al congresso di Livorno del 1921. In quel congresso, che si svolse mentre era pienamente in corso l’attacco squadrista, tutta l’attenzione politica fu invece concentrata sui rapporti con Lenin, sul rispetto o meno delle 21 condizioni da lui poste per essere ammessi nell’Internazionale Comunista. Per di più quella discussione si svolse sulla base di un presupposto comune dei massimalisti e della frazione comunista: “Noi faremo come la Russia”. Massimalisti e frazione comunista, però, sorvolarono entrambi su due questioni fondamentali: in primo luogo che in Russia, per fare la rivoluzione, Lenin e Trotsky avevano costruito un formidabile “partito armato”; in secondo luogo che in Italia un partito armato già era in campo, ma era quello costruito da Mussolini e guidato dai capi dello squadrismo cittadino e agrario.

Il discorso

Gli unici che in quella fase parlarono della offensiva fascista in corso furono Matteotti e Vacirca, mentre tutti gli altri si occuparono di Lenin.
Successivamente, partendo da questa analisi, Matteotti denunciò in Parlamento, in un famoso discorso, le sopraffazioni che avevano caratterizzato le elezioni del 1924 rendendole del tutto irregolari. Tutto ciò avvenne come una sorta di exploit personale da parte di un leader isolato, vittima già di pericolosi assalti. È incredibile che un partito socialista, la cui larga maggioranza (massimalisti e frazione comunista) era infatuata dall’evocazione dell’uso della violenza rivoluzionaria per conquistare il potere, invece non fu capace di organizzare l’autodifesa contro lo squadrismo che colpiva non solo i suoi parlamentari più esposti, ma i suoi sindaci, i suoi capi lega, i suoi segretari di sezione.

Del resto, mentre era in corso la marcia su Roma, larga parte dei dirigenti socialisti e comunisti era a Mosca per contendersi l’investitura da parte di Lenin.
Matteotti perseguì l’unica linea politica razionale capace di contrastare il fascismo: puntò sulla alleanza con i liberali e i popolari. I fascisti capirono la pericolosità di una opposizione come la faceva Matteotti, per cui Mussolini commissionò alla Ceka di Dumini il suo assassinio.
Malgrado il suo barbaro omicidio, Gramsci e Longo attaccarono lo stesso Matteotti. Gramsci lo definì “pellegrino del nulla”, e aggiunse una riflessione strategica del tutto ottusa: “L’obiettivo è quello di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semi-fascismo di Amendola, Sturzo, Turati”. Longo affermò: “La sua morte è tanto più tragica perché segna il fallimento della sua concezione, del suo partito e del suo metodo”.

L’investitura

Quella operazione di demonizzazione del riformismo da parte dei comunisti si sviluppò nel corso degli anni Trenta e raggiunse la sua punta più elevata al sesto congresso della Internazionale Comunista, quando ci fu la scomunica della socialdemocrazia accusata di “socialfascismo”. Successivamente le cose cambiarono sul piano politico con la scelta dei fronti popolari. Ma dopo il 25 aprile 1945 Matteotti fu esaltato nella dimensione martirologica e non per lo spessore della sua dimensione politico-culturale. Questo centenario è segnato da una riscoperta di Matteotti con la pubblicazione di molti libri. C’è però il rischio di esaltazioni fondate su un antifascismo del tutto generico.

In questo quadro, la commemorazione di Matteotti svoltasi alla Camera ha presentato un aspetto del tutto inaccettabile per la esclusione di un relatore espresso dalla cultura socialista. Si trattò di un riformismo rivoluzionario autentico, di un antifascismo militante. E si trattò anche di una posizione rigorosamente anticomunista: “Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle minoranze. Noi siamo socialisti e per il metodo democratico delle libere maggioranze. Non c’è quindi nulla in comune fra noi e voi”.