Non c’è dubbio che il grado di civiltà di una società si misura in modo rilevantissimo attraverso le scelte che vengono compiute in materia di formazione e di formazione scolastica in particolare. La scuola costituisce uno dei modi principali in cui una comunità politica si prende cura del futuro delle generazioni e quindi, in sostanza, del proprio stesso futuro. Il modo in cui tutela i soggetti antropologicamente più deboli perché non ancora in condizione di prendere in mano interamente il proprio destino e condizionati pesantemente dalle scelte compiute dagli altri, gli adulti. Scelte cruciali per determinare quanto e in che misura essi potranno essere in grado di godere della “libertà del e nel futuro”.

La nostra Costituzione si occupa della formazione scolastica e della tutela dei giovani lungo due direttrici molto chiare: la libertà e la promozione dell’eguaglianza. La libertà: riconoscendo, appunto, i “diritti di libertà” fin dalla nascita, seppure con limitazioni determinate dal ruolo dei genitori, delle istituzioni, ma sempre – e questo dev’essere chiaro – nell’interesse della gioventù. Chi ha il potere di condizionare queste libertà innate, lo ha nella misura in cui tale potere sia esercitato nel loro interesse. Quanto alla promozione, essa, oltre attraverso specifiche disposizioni indirizzate a rafforzare la protezione, la valorizzazione delle capacità e del merito, il sostegno, anche economico, dei giovani (e degli studenti), soprattutto se privi di mezzi (art. 34 Cost.), avviene anche facendo leva su quella norma generale dell’art. 3, secondo comma, che consacra l’impegno della Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (e quindi anche dei cittadini più esposti come i nostri figli).

Ciò, non in una prospettiva statalista ed egualitarista, ma per consentire “lo sviluppo della personalità” secondo le capacità, la determinazione, la volontà e i meriti di cui ciascuno è dotato o che sceglie liberamente di utilizzare, ma che ineluttabilmente e naturalisticamente non sono distribuiti in modo “uguale” per ciascuno. Anche la possibilità di ascesa sociale dei giovani è dunque una condizione da garantire. E la si deve garantire come “possibilità”, rimuovendo quanto più si riesce le condizioni che la impediscono, lasciando poi alla libertà dei singoli, e alle loro differenziate capacità e scelte, di perseguirla e fin dove perseguirla. L’uguaglianza dei punti di arrivo insomma non dipende solo dallo Stato ed è giusto che sia così, per non scivolare in un modello totalitario da stato etico e paternalista che uccide la libertà.

Tra questi due poli, libertà e promozione, che dosano il grado di accettazione di uguaglianza e differenza nell’ambito di una società, si giocano anche le scelte di politica pubblica sulla scuola. Come la scelta di prevedere il famigerato “curriculum dello studente” da valutare nell’ambito dell’esame di maturità a partire da quest’anno. Sorvolo, per ragioni di spazio, su tutta una serie di questioni sollevate già nel dibattito pubblico (purtroppo incredibilmente limitato di fronte alla portata epocale di simili problemi). Non tocco quindi la questione rilevantissima del ruolo da assegnare alle character skills (accanto alle cognitive skills) nella valutazione degli studenti e della relativa formazione, né voglio enfatizzare l’assurdità oggettiva di una misura che, proprio agli studenti del 2021, dopo un anno e mezzo di pandemia che ha bloccato praticamente ogni attività, chiede di documentare, tra l’altro, i loro impegni extrascolastici per farne oggetto di profilazione valutativa.

La questione che mi interessa è quella di evidenziare il cortocircuito e le implicazioni non solo di ingiustizia, ma di illegittimità, di una misura che attua la regola (art. 1, comma 30 della legge n. 107 del 2015) per cui le commissioni incaricate dell’esame di maturità debbano “tenere conto” non tanto di certe o altre skills, ma di quelle dimostrate in attività extrascolastiche, con le quali le istituzioni di formazione non c’entrano nulla, di cui non si assumono alcuna responsabilità e che, com’è stato detto e scritto, dipendono da scelte “non obbligatorie” (profilo della libertà) e non sempre possibili (profilo dell’eguaglianza economica e sociale). Si tratta di un radicale capovolgimento del modello costituzionale e un tradimento di quella funzione di cura che una comunità deve assumersi verso le generazioni future. Sul piano strettamente costituzionale si tratta di un tradimento sia dei principi liberali che dei principi egualitari.

Dei principi liberali perché impone (e stressa) famiglie e studenti rispetto a una sfera della vita (la scelta di come impiegare il tempo non scolastico) in cui la scuola per definizione non c’entra, trattandosi, appunto, di attività extra-scolastiche. Con la conseguenza che si vogliono imporre valori e modelli di comportamento (da stato paternalistico) al di fuori della competenza per farlo. Anche perché, la libertà, se è tale, è anche libertà di non riempirsi la settimana di attività extrascolastiche, perché magari si preferisce studiare o passeggiare o giocare (sì giocare, il cui valore non merita nemmeno di essere ricordato). Cosa avrebbero dovuto scrivere un Kant o un Leopardi nel proprio curriculum di studente? O i tanti “nerds” che hanno rivoluzionato la storia scientifica e tecnologica di questo tempo?

Ma il tradimento è anche dei valori di eguaglianza e promozione, perché considerare di valutare, ai fini dell’esame, attività estranee alla formazione istituzionale (discorso diverso vale ovviamente per le attività extracurriculari, ma non extrascolastiche) non solo tradisce il principio di rimuovere le diseguaglianze di fatto (art. 3) ma anzi le cristallizza e le enfatizza. Con un effetto classista che solo un cieco potrebbe non vedere (e lo scrivo consapevole delle tante opportunità che ho avuto da giovane). Altro che mobilità sociale, già praticamente inesistente nel nostro paese!
Infine una tale scelta è anche un tradimento della funzione di cura delle generazioni future. È un’abdicazione della scuola che ricorre all’ “outsourcing” delle attività di cui non si fa carico e di cui non ha responsabilità e che malgrado ciò valuta perché evidentemente non considera sufficienti quelle che dipendono da lei.

Ma è anche un elemento di potenziale abdicazione del ruolo delle famiglie, dei genitori, indotti, anche, adesso per decreto, a pensare che la cura dei propri figli consista prevalentemente, univocamente, “pensierounicamente”, nello svolgimento di quante più attività extrascolastiche perché, come si dice, “fanno curriculum”. Là dove la scuola non ha competenza a istruire non ha nemmeno competenza a valutare, perché compito della scuola non è attribuire patenti generali di “successo della personalità”, ma la prestazione di un servizio e la valutazione dell’efficacia di quel servizio, prima ancora che la valutazione del profitto di un alunno, che, infatti, molto spesso, dipende in larga misura dal fallimento della scuola più che da quello personale.