La grande crisi del Medio Oriente si è allargata coinvolgendo Yemen, Iraq, Siria e Pakistan, vicino orientale dell’Iran. Tuttavia, non va dimenticato che il centro di tutto resta la Striscia di Gaza, con la guerra tra Hamas e Israele che è il nodo irrisolto della diplomazia mondiale. Negli ultimi giorni, si sono rincorse, anche con insistenza, le voci di un possibile accordo per Gaza che prevederebbe stop all’ostilità, liberazione degli ostaggi, garanzie di sicurezza per Israele ma anche passi concreti per una soluzione a due Stati. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha respinto la proposta, anche perché pressato da una destra radicale in fermento e con una leadership messa a dura prova dall’assalto di Hamas del 7 ottobre e dalla successiva operazione militare ancora in corso insieme alla ricerca degli ostaggi.

Washington ha ribadito il concetto già espresso in più occasioni dai suoi funzionari: la necessità di uno Stato palestinese ma soprattutto l’auspicio, sottolineato dal consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca John Kirby, su “nessuna rioccupazione di Gaza”. Più chiaro il portavoce del dipartimento di Stato, Matthew Miller, secondo cui “non c’è strada per garantire una sicurezza a lungo termine senza stabilire uno Stato palestinese”. E se Netanyahu ha smentito questo scenario, i media israeliani sottolineano come sia in aumento il rischio di una paralisi del governo: sia per le difficoltà della guerra, sia per la crescente frustrazione dell’amministrazione di Joe Biden, che ieri ha avuto la prima conversazione telefonica con “Bibi” dal 23 dicembre sugli sviluppi del conflitto.

Gli Stati Uniti temono che il premier israeliano si trovi in una posizione complicata, con alcuni ministri scettici rispetto alla sua linea e un’opinione pubblica sempre meno convinta della strada intrapresa dall’esecutivo. Inoltre, molti osservatori pensano che a Washington siano sempre più delusi dall’assenza di concessioni da parte di Netanyahu riguardo le richieste dell’alleato d’Oltreoceano, col rischio che vengano affossati tutti gli sforzi diplomatici Usa per giungere a un accordo che metta fine al conflitto e normalizzi i rapporti con i partner regionali. Tutto ciò, inoltre, avviene mentre l’Autorità nazionale palestinese ha rivelato di tenere colloqui con l’Egitto anche sul futuro della Striscia e mentre anche l’Europa appare maggiormente coinvolta in favore di una soluzione diplomatica. Lo si è compreso anche dalle ultime dure dichiarazioni dell’Alto rappresentante per la Politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell.

“Non usciremo dalla tragedia che stiamo vivendo ora se non con un impegno molto forte da parte della Comunità internazionale. La buona notizia è che c’è gente disposta a farlo, e la brutta notizia è che Israele, in particolare il governo, lo rifiuta categoricamente” ha detto Borrell. E il capo della diplomazia di Bruxelles ha lanciato anche accuse allo Stato ebraico: “Hamas è stato finanziato dal governo israeliano per cercare di indebolire l’autorità palestinese di Fatah”. La soluzione alla guerra è vista come massima priorità anche per evitare l’allargamento della crisi. Gli Houthi non hanno cessato la loro guerra, nonostante i raid sempre più continui degli Stati Uniti.

E ora l’attenzione è tornata a spostarsi sul Libano, dove cresce l’allarme per un possibile confronto diretto tra Hezbollah e Israele. Lo Stato ebraico chiede che la milizia filoiraniana si allontani di 30 chilometri dal confine, mentre Washington ne chiede quantomeno sette. E secondo quanto rivelato venerdì dal Corriere della Sera, l’inviato speciale Usa per l’area, Amos Hochstein, avrebbe sondato il terreno pure con l’Italia per un maggiore coinvolgimento nel Paese dei Cedri nell’ambito della missione Unifil. Roma è in ascolto, mentre il ministro degli Esteri Antonio Tajani apre a un possibile invio dei militari italiani a Gaza in caso di operazione internazionale: “Pronti a inviare i nostri militari con l’Onu come portatori di pace”.