Per la prima volta in questo anno a palazzo Chigi Giorgia Meloni ha preferito leggere e non andare a braccio. A parte qualche incertezza qua e là nella lettura – è “umana anche lei” cit – è stato forse il suo discorso migliore. Nei toni e nel linguaggio del corpo. “Discutibile”, secondo le opposizioni, quando ha trattato temi come immigrazione, economia e ha dato la caccia ai fondi per le ong palestinesi. Perfetto, invece, sulla politica estera e sul posizionamento dell’Italia nel blocco atlantico, al fianco dell’Ucraina e di Israele, “attenti a non cadere nella trappola ideologica dello scontro tra civiltà”.

Inutile negare che tutti gli occhi ieri fossero puntati su di lei dopo la settimana più difficile sul piano privato, una leadership con consensi ancora molto alti – l’affaire Giambruno sembra averle regalato uno 0,2% – ma sempre più asserragliata e bunkerizzata convinta com’è, la premier, di essere al centro di un complotto ordito per lo più in casa, cioè nella maggioranza. Una sindrome che sta contagiando anche i gruppi parlamentari. Ieri, per dire, sia alla Camera che al Senato deputati e senatori di Fratelli d’Italia scambiavano malvolentieri quattro chiacchiere con i giornalisti. Temono che solo il fatto di essere visti a parlare con qualche cronista possa diventare indizio di scarsa affidabilità.

Diciamo subito che il “tentativo” dell’ex first gentleman Andrea Giambruno di trovare spazio in una giornata così delicata facendo postare dal barbiere le foto del nuovo taglio (senza ciuffo, quasi rasato, look meno disco e più finto-trasandato) è fallito nel giro di pochi minuti. E non intendiamo dedicare a questo ulteriore spazio. Più in generale, la Meloni che arriva al Senato ieri mattina alle 10 è più tirata e nervosa, quasi pacata, di quella che replicherà nel pomeriggio alla Camera. Che strappa applausi bipartisan quando riflette sulla “gravità” del momento, sul rischio “slavina che potrebbe disegnare scenari per noi impensabili in Medioriente”. “Mi sono chiesta – diceva la premier ieri pomeriggio alla Camera – perché i miliziani di Hamas abbiano indossato una telecamera sulla testa e abbiano ripreso e poi diffuso scene di una violenza inaudita.

La risposta è una sola: perché Hamas vuole provocare, vuole spingere Israele ad una reazione tale per cui risulterebbe poi compromesso ogni tentativo di stabilizzazione di quell’area”. Il “bluff” di Hamas il cui target non è certo lo stato libero di Palestina ma cancellare Israele e spingere dalla propria parte i paesi arabi moderati. Questa Meloni ha avuto gli applausi di tutti, destra e sinistra. Non i 5 Stelle. Non la Sinistra e i Verdi. Poco, a dir la verità, anche dai banchi della Lega. Il vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha preferito non sedere al suo posto accanto alla premier nel banco del governo. Ha scelto Genova, l’assemblea dell’Anci, dei sindaci italiani. Una volta compreso che il “non esserci” non lo stava premiando in termini di “visibilità” giornaliera, a fine mattinata il leader della Lega ha tuonato via social chiedendo che il ministro degli Esteri – Tajani invece è stato ripreso tutto il giorno in tv al suo posto accanto alla premier – convocasse seduta stante l’ambasciatore turco a Roma. Motivo? L’intemerata di Erdogan a favore di Hamas: “I militanti di Hamas sono dei liberatori che combattono per la loro terra”. Ovviamente Tajani non ci ha pensato proprio a chiamare l’ambasciatore. E qualcuno deve aver spiegato a Salvini che la posizione di Erdogan è un po’ più complessa di quello che sembra.

Un’altra occasione sprecata da parte del segretario leghista. Che comunque, con il suo continuo richiamo alle destre europee e ai singoli nazionalismi, organizzando la manifestazione del 4 novembre a Milano “contro l’islam in nome della sicurezza”, riesce a condizionare l’azione di governo.

C’è un abisso infatti tra la Meloni che parla di politica estera e quella che poi affronta temi come immigrazione, sospensione di Schengen, legge di stabilità e Mes, normative green europee, finanziamenti ai palestinesi “e quindi forse ad Hamas”. E che, affrontando in replica questi punti, ha perso l’aplomb e ha indossato di nuovo i panni della leader della Garbatella. “Fatevene una ragione, la maggioranza è compatta” ha detto. “Siete nervosi colleghi, troppo nervosi, allora guardate facciamo così: governo da un anno, ne faccio altri quattro e poi chiedo agli italiani cosa ne pensano. Si chiama democrazia”. Salvo, poi, qualche minuto dopo, correggere la battuta e dire: “Non siate nervosi colleghi, tranquilli, il governo va male e sta arrivando il vostro momento”.

La Meloni che insegue Salvini – ma accanto a sé avrà solo il ministro Giorgetti – e crede così di depotenziare i suoi strappi, è quella che sovrappone il tema dell’immigrazione illegale con quello del terrorismo. Quella che cavalcava la paura di attentati di matrice islamica. È vero che dal 2016 a oggi i sette responsabili di attentati a Nizza (due volte), Berlino, Charleroi, Marsiglia, Cannes e Bruxelles sono tutti clandestini sbarcati a Lampedusa che poi hanno fatto perdere le loro tracce in Europa. Sette su circa un milione di persone sbarcate a Lampedusa è veramente un piccolo numero. Insufficiente persino per una statistica. È la Meloni che si fa vanto di aver sospeso Schengen (lo hanno fatto undici paesi Ue) e che spiega di aver imposto in Europa “un nuovo modo per fermare i flussi clandestini”: la dimensione esterna, bloccare i flussi primari e non occuparsi di quelli secondari. In realtà così gli sbarchi sono più che raddoppiati ma vabbè.

Quella che insegue Salvini è la Meloni che propone di “rivalutare” i finanziamenti alle ong palestinesi, “il rischio è che i nostri soldi finiscano nella tasche di Hamas”. È la premier che dedica poche righe alla sessione economica del Consiglio europeo. Venerdì infatti Giorgia Meloni sarà “costretta” a dare una risposta chiara a definitiva sul Mes. Ha detto qualche parola sul nuovo Patto di stabilità, da cui “noi chiediamo che siano scomputate le spese per l’Ucraina, per la Difesa e la transizione ecologica”. Due parole due. Perché una in più sarebbe stata troppa.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.