È 1, x, 2 la previsione che si può fare per il viaggio della nostra premier a Washington. Ed è il caso di sottolineare “nostra”, in termini sia italiani sia europei. Di fronte alle difficoltà palesi e alle imprevedibilità dell’interlocutore, bisogna aspettarsi di tutto, quant’anche augurarsi che l’incontro vada per il meglio. Stona, infatti, il silenzio della politica nazionale – lasciamo perdere i nostri partner Ue – a suo sostegno. Se non per amore di fair play, bensì per la riuscita degli interessi comunitari, in questi casi tutte le bandiere dell’Unione dovrebbero sventolare nella stessa direzione. Se non altro per dimostrare che l’Ue funziona.

«È un viaggio che si presenta difficile, in un contesto di rapporti tesi tra l’Unione europea e gli Stati Uniti di Trump». L’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, già rappresentante del governo italiano a Bruxelles prima e Commissario Ue all’industria e all’imprenditoria poi, parla a margine del primo evento per i 25 anni della Fondazione Ducci, “L’Europa e i nuovi equilibri geopolitici mondiali”. Il diplomatico ci tiene a sottolineare il sentiment di consapevolezza con cui la Presidente del Consiglio deve attraversare l’Atlantico. «Giorgia Meloni dovrà cercare di trasmettere un messaggio di disponibilità da parte dell’Europa a trovare una soluzione negoziata sui tanti problemi che sussistono oggi nell’agenda transatlantica. A partire dai dazi. Ben sapendo le modalità di negoziazione del Presidente Usa».

Meloni da Trump, le tre strade da non seguire

La premier infatti ha davanti a sé tre strade da non seguire. Può imitare il presidente francese Macron, che è entrato nello Studio ovale cercando di tener testa a Trump sulla linea del sarcasmo. Ne ha portato a casa un sorriso, una stretta di mano, ma nulla più. Può arrivare poi convinta di trovare un amico. Com’è successo a Zelensky. Sappiamo com’è andata a finire. «Sarebbe un errore – dice Nelli Feroci – se la premier pensasse di recarsi a Washington unicamente per tutelare gli interessi italiani. Ma credo che così non sarà. Mi risulta che il Presidente del Consiglio abbia avuto frequenti consultazioni con Ursula von der Leyen, per disegnare un perimetro di quello che sarà opportuno dire e non dire». Dalle parole del diplomatico si ritorna così sulle critiche mosse a Meloni, in sede italiana e da alcuni membri di governi europei, che andrebbe a Washington unicamente per il difendere il Made in Italy.

«La divergenza d’interessi non va vista all’interno dell’Ue, ma verso gli Usa. Questo è il vero problema che, immagino, dia più ansia alla Presidente del Consiglio», spiega Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation di Roma. «Giorgia Meloni è partita da Palazzo Chigi con le migliori intenzioni di tener insieme le posizioni, italiana, europea e statunitense. Tuttavia, deve ricordarsi che l’interlocutore non sembra interessato a farlo». Si torna alla consapevolezza, quindi. Tale per cui, nonostante i due leader condividano la visione nazional-populista del mondo, gli interessi dei rispettivi Paesi non vanno in questa stessa direzione. «Per Trump America first it’s America first», aggiunge Politi. «Mentre i dazi sono un palese problema per la base elettorale del governo italiano». L’analista è anche cauto sull’utilità dell’aumento delle spese militari italiane al 2% del Pil. Dote che Meloni porta alla Casa Bianca. «Una partita che va oltre la difesa nazionale, benché l’Italia sia, con altri 7 membri Nato, sotto la soglia concordata del 2%».

Meloni e Trump “si capiscono, vengono da lunga opposizione”

Il successo del meeting dipenderà proprio dalla proporzione tra pragmatismo e ideale che i due leader sapranno attribuirsi. «Va detto che i due si capiscono. Vengono entrambi da una lunga opposizione. Sono pratici. Entrambi gli elementi potrebbero giocare in favore del risultato». Viene da chiedersi, inoltre, quanto abbia giovato la sospensione per 90 giorni ai dazi. Un gesto last minute di Trump che potrebbe aver svilito l’efficacia del viaggio. Dopo questo stand by che senso ha partire? È una domanda che lecitamente avrebbe potuto porsi Giorgia Meloni lo scorso fine settimana. «Una doccia scozzese da tattica trumpiana. Peraltro 90 giorni sembrano un tempo lungo in politica: un’illusione ottica che impedisce di risolvere la crisi, ma che può aprire uno spazio per negoziare».

Infine, alle tre strade da non percorrere, se ne aggiunge una quarta che ha più il sapore di un auspicio. E cioè che proprio il pragmatico porti a vedere le due sponde dell’Atlantico come i confini naturali di una macroarea di libero scambio. Giorgia Meloni dovrebbe saper convincere Trump che l’industria Usa senza l’Ue non si rilancia. Come, del resto, un’alternativa al benestante consumatore americano noi non ce l’abbiamo. Si dovrebbe trovare una quadra tra gli standard qualitativi europei, che sono migliori e che devono essere rispettati, e i costi del lavoro e di produzione, in Usa più sostenibili, grazie a una pressione fiscale più leggera. Meloni, pardon, l’Europa dovrebbe indicare a Trump la strada per un’Alleanza atlantica industriale. Soluzione utile anche contro la Cina.