Verso le elezioni
“Meloni è improvvisazione, Letta e Salvini annaspano e al Centro non c’è trippa per gatti”, intervista a Giuliano Urbani

È stato tra i fondatori di Forza Italia, ha elaborato il programma istituzionale del movimento creato da Silvio Berlusconi. È stato ministro dei Beni culturali dal 2001 al 2005. All’impegno politico, che lo ha visto più volte parlamentare, ha accompagnato quello accademico: dal 1969 al 1983 ha insegnato Politica comparata nella facoltà di Scienze politiche e sociali “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze. Dal 1984 è professore ordinario di Scienza della politica e direttore del Centro studi e ricerche di Politica comparata all’Università “Bocconi” di Milano. La parola a Giuliano Urbani.
“Il modo in cui si sono formate le liste è un’ulteriore dimostrazione del carattere oligarchico del nostro sistema politico”. Cosi Sabino Cassese in una intervista a questo giornale. Lei come la vede?
Sono perfettamente d’accordo con Cassese. Direi di più. Non è un carattere oligarchico e basta, il che sarebbe già un fatto negativo. È oligarchico al ribasso. Ci vorrebbe il professor Pazzaglia, grande invenzione di Renzo Arbore in Quelli della notte, per indicare con la mano quanto sia basso il livello.
Ma lei come se lo spiega?
Noi siamo un Paese che non ha mai prodotto una cultura politica nazionale. Ha perso l’occasione di farlo con la resistenza, che poteva essere una eccellente occasione. Non si è riusciti neanche a superare l’antitesi fascismo-post fascismo. I cosiddetti valori della resistenza sarebbero stati una buona base, a patto, però, di non scadere nella retorica faziosa. Invece di quella retorica siamo rimasti prigionieri e abbiamo perso l’occasione. Adesso ci balocchiamo con il nulla. In un momento in cui, e su questo ha ragione la Meloni, gli interessi nazionali dovrebbero fare agio su tutto il resto, non riusciamo neanche a coltivarli bene quegli interessi che pure dovrebbero essere concepiti come un bene comune, nazionale per l’appunto, su cui convergere. Mi duole constatare che così non è. Viviamo alla giornata, trastullandoci con aspetti secondari, con la fuffa. Non ci concentriamo sulle cose fondamentali.
Quali sono queste cose fondamentali?
Quelle a cui ho fatto riferimento evocando la Meloni: gli interessi nazionali. In altri termini, oggi dovremmo vedere che cosa ci accomuna e come difenderlo. Invece non lo facciamo. Lei pensi a come sono state fatte le liste elettorali. Come si fanno i programmi. Anche persone perbene, che dovrebbero avere più libertà di movimento in questo senso…
Ad esempio, professor Urbani?
Enrico Letta. Non riesce a parlar bene neanche ai suoi. Non parliamo poi, per carità di patria, di Salvini. Salvini è un giovanotto che aveva rappresentato la speranza della Lega. Ha cominciato bene ma purtroppo ha proseguito annaspando. Ci sono poi persone che hanno imboccato strade percorribili, difendibili, penso a Calenda o allo stesso Renzi. In passato hanno anche azzeccato mosse giuste e infatti, quando ci sono riusciti, sono stati premiati dall’elettorato, ma poi non hanno saputo continuare sulla strada giusta né l’uno né l’altro. Vediamo adesso cosa riuscirà a fare Calenda, ma sono molto, molto scettico in proposito.
Nel dibattito aperto da Il Riformista, Sergio Fabbrini, altro autorevole scienziato della politica e dei sistemi istituzionali, ha sostenuto: “Gli eletti sono diventati degli imprenditori di se stessi e quindi si comportano sulla base dei vantaggi immediati che possono conquistare nel mercato politico”. Anche sulla base della sua importante esperienza politica, oltreché da scienziato della politica, lei come la vede?
Mi trovo in difficoltà a definire il mercato politico. Si dovrebbero poter distinguere bene gli orientamenti. Questo è un mercato famelico. Non è un mercato intellegibile, è un mercato che non si capisce dove va. Con tutti che vivono alla giornata, e vivendo in questo modo è impossibile avere una strategia, una filosofia, dei punti fermi di orientamento. È un mercato non mercato.
Si spiega così il 40% degli italiani che ancora sono indecisi se andare a votare il 25 settembre. Una parte dei quali si dice disgustato dalla politica e dai suoi rappresentanti?
Staremo a vedere i risultati, che potrebbero riservarci molte sorprese. Io appartengo a quel gruppo che si aspetta maggiori astensioni. Crescenti astensioni e non decrescenti. Per la semplice ragione che non vedo nessun gancio a cui si possano appendere quelli che vogliono credere in qualche cosa. Dei leader o sedicenti tali che sono sul mercato, ne abbiamo già parlato. Se pensiamo che la persona più dotata di buon senso in questa vicenda è la Meloni, che è anche la più giovane, l’ultima arrivata anche se viene da lontano. Questo vuol dire che in mezzo tutto il terreno è desertico. Questa giovane signora è tutta una improvvisazione. In molti, me compreso, hanno simpatia per le sue improvvisazioni ma non si può negare che di questo si tratta, di improvvisazioni. La simpatia non può arrivare a camuffare la cosa. Alla Meloni riconosco una franchezza che altri non hanno, ma non basta la franchezza a definire uno statista con una solida cultura di governo. Le confesso che personalmente non so per chi votare ma so per chi non votare.
Cosa c’è ancora di “centro” e di moderato in una coalizione a trazione Meloni e Salvini? Lo chiedo a lei che è stato uno dei fondatori di Forza Italia di cui ha incarnato l’anima più liberale, oggi potremmo definirla “centrista”.
Vede, io penso che al centro ci siano molte speranze e altrettante aspettative, del tutto legittime, ma non ci sia, per usare un francesismo, trippa per gatti. Non c’è il materiale umano, non ci sono le idee. Non c’è quasi nulla. Soprattutto non c’è la cultura. Il “centro” vorrebbe o dovrebbe dire proprio questo: cultura di governo. Dire senza infingimenti ciò che s’intende fare e per raggiungere quale obiettivo. Questo non c’è. Le faccio un esempio: Letta e Meloni. Sono due persone serie che riescono a parlarsi, ma questo non basta. Dovrebbero potere e saper dire fino a che punto possiamo fare le cose assieme, qual è il confine delle cose che possiamo fare assieme, per l’interesse nazionale, e quelle che viceversa richiedono una competizione perché assieme non le facciamo. Sarebbe un parlare chiaro agli elettori, al Paese. Questo non c’è. Quando va bene si sorridono e fanno una riunione assieme. Ma il costruire una cultura di governo, beh, questo manca assolutamente. Quanto al centrosinistra, a tenerlo unito, per modo di dire, è l’ “antimelonismo”, riedizione, peraltro mal riuscita, dell’antiberlusconismo. Ma con la politica dell’”anti” non si va da nessuna parte. E non credo che aiuti a vincere le elezioni gridare al pericolo di uno stravolgimento della Costituzione se il centrodestra prevarrà. Per modificare la Costituzione c’è bisogno dei due terzi del Parlamento. Non credo che ci arriveranno. E aggiungo io, menomale.
Mario Draghi. Dal punto di vista politico, appartiene ormai al passato dell’Italia?
Sì e no. Sì perché c’ha provato anche lui ma non c’è riuscito. Nella migliore delle letture, si può affermare che ha tenuto assieme i riottosissimi partiti ma non ha costruito una autorevole piattaforma comune nella quale si potessero identificare un po’ tutti. Gli hanno detto no, quando lui l’ha proposta. Ma guardando al futuro, il discorso è diverso.
Perché, professor Urbani?
Perché Draghi è l’unico leader europeo che abbiamo in questo momento. E l’Italia di leader europei ne ha bisogno come il pane. Se si sbriciola l’Europa, e purtroppo le avvisaglie in questo senso ci sono tutte, per noi si mette proprio male. Se l’Europa continua a non produrre una volontà politica sull’energia piuttosto che su mille altre cose, l’Italia del futuro non esiste. Per tornare alla sua domanda: sì e no. No per il passato recente, sì per la speranza del futuro. Io credo che non si abbia la contezza dei rischi a cui stiamo andando incontro: lo stesso Pnrr è tutt’altro che messo in sicurezza. Per farlo e portarlo a compimento, c’è bisogno di competenza e di una riconosciuta autorevolezza in Europa. Draghi ce le ha, l’una e l’altra. Non credo che lo stesso si possa dire per chi andrà al governo. È solo Draghi che abbiamo. Non è che ne abbiamo altri due o tre.
Lei ha coniugato nella sua vita pubblica l’insegnamento e la sperimentazione nella politica. Guardando indietro e al contempo pensando all’Italia di oggi, lei si ritiene uno sconfitto?
Direi di sì. Io c’ho provato. Ho puntato le mie carte su due cose, che non hanno funzionato. La prima è la Bicamerale. La Bicamerale era la sede per fare le riforme assieme. Non ci siamo riusciti, purtroppo. La seconda cosa per cui mi ritengo sconfitto, è che avevo attribuito a Silvio Berlusconi più carisma politico, un carisma, come dire, razionale. L’uomo è egocentrico, non vede al di là del proprio naso, perché è fatto così. Capisce gli altri, ha una capacità “seduttiva” fuori dal comune, ma attribuisce a se stesso tutte le funzioni delicate. E’ come se fosse solo al mondo. Che vuole che le dica, oggi guardo con malinconia a quell’esperienza. Della Forza Italia che ho conosciuto e nella quale ho creduto, non è rimasto più nulla. Forza Italia è il passato, ma per guardare al futuro ci vuole ben altro.
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