Il 27 gennaio ricorrerà il 30° anniversario della “svolta di Fiuggi’’. In quella ridente cittadina termale ebbe luogo, prima, l’ultimo congresso nazionale (il XVII) del MSI-DN e di conseguenza il congresso costituente della nuova Alleanza nazionale (AN). Fu una sorta di ‘’Bolognina’’ del MSI che, prigioniero del passato, era rimasto al di fuori del cosiddetto arco costituzionale prima che Silvio Berlusconi lo sdoganasse associandolo alla clamorosa e inattesa vittoria elettorale del 1994 e portando alcuni suoi esponenti al governo del paese.

La “svolta” indirizzò il partito verso la destra conservatrice ed europeista, dismettendo i riferimenti ideologici al fascismo al fine di qualificarsi come forza politica legittimata a governare. Gianfranco Fini, ultimo segretario del MSI-DN, seguendo le intuizioni di Domenico Fisichella (che fu vice presidente del Consiglio del Berlusconi 1), aveva capito che occorreva mettere a frutto senza perdere tempo l’opportunità che gli era stata fornita nel contesto dell’Alleanza del Buon Governo, la formazione che il Cav aveva costituito con il MSI a fianco della Casa della libertà nella quale Forza Italia stava insieme alla Lega. Come Occhetto anche Fini ebbe il suo Armando Cossutta: Pino Rauti, da sempre animatore dell’ala sociale del partito, unitamente ad altri esponenti, non accettò questo cambiamento.

Giorgia Meloni aderì alla svolta di Fiuggi e, successivamente, al Popolo della libertà (PdL), il partito bicefalo – voluto da Silvio Berlusconi – che stravinse nelle elezioni del 2008 per frantumarsi pochi anni dopo a causa del venire meno dell’intesa tra i due leader fondatori. In quegli anni di confuso declino della coalizione di centro/destra, Meloni si aggrappò al salvagente di FdI di cui è presidente dall’8 marzo 2014. In verità, nei suoi primi anni di vita, quello di Meloni rimase un partito di nicchia sovranpopulista e movimentista destinato ad un ruolo di mera testimonianza, senza nemmeno prendersi troppo sul serio. Poi nella XVIII legislatura – quella in cui successe di tutto, a livello delle maggioranze e dei governi – il partito di Giorgia Meloni è entrato nell’agone, con poco più del 5% dei voti, ma ne è uscito con una percentuale che, alle elezioni della XIX, ha sfiorato, come primo partito, il 30%.

Osservando le vicende della legislatura precedente trascorsa tutta all’opposizione, Meloni si era resa conto che per governare l’Italia vi sono delle linee rosse da non valicare. I partiti – la Lega e il M5S – che nella XVIII legislatura pensavano di poter cambiare le strade tracciate dalle generazioni precedenti, dovettero ricredersi, e arrendersi alla logica dell’adeguarsi o perire. Quando è venuto il suo turno, Giorgia è risalita alla lezione di Fini. Prima donna a entrare a Palazzo Chigi alla guida di un partito ‘’maledetto’’ le sue parole sono state ‘’hic manebimus optime’’. Anche a costo di imboscare il programma elettorale in cui erano raccolti i deliri dei decenni trascorsi all’opposizione. Si direbbe, quasi, che l’elettorato si aspettasse una benefica incoerenza. In nessun altro modo si spiega il perdurante consenso che sostiene la premier e il suo governo. Oggi, se FdI dovesse perdere dei voti ‘’nostalgici’’ non se ne accorgerebbe nessuno.

Per Giorgia Meloni è venuto il momento (le opportunità in politica si presentano inattese e svaniscono subito se sprecate) di decidere che cosa fare da grande: se accontentarsi di essere indicata nelle note dei sussidiari come la prima donna premier, oppure se diventare protagonista della storia, come colei che potrebbe cambiare il corso della politica italiana del XXI secolo. Meloni ha provato a realizzare questa ambizione a livello istituzionale con misure di riforma molto discutibili che potrebbero determinarne (Matteo Renzi docet) la caduta. Sarebbe comunque tempo perso: la trasformazione, per essere solida e duratura, deve avvenire negli assetti strutturali della politica.

In Italia manca un partito capace di svolgere il ruolo esercitato per cinquant’anni dalla Dc. Berlusconi ci ha provato, ma non è stato in grado di andare fino in fondo, anche per limiti personali che hanno dato filo da tessere ai pogrom delle procure. Per Giorgia – cresciuta a suo agio in quel “teatrino della politica’’ che annoiava il Cav – è venuto il momento di consolidare lo spazio guadagnato sul piano europeo e internazionale, tornando a Fiuggi. Per giocare in prima squadra deve aderire, armi e bagagli, al Partito popolare europeo abbandonando lungo il tragitto tutti i cadaveri del passato (fiamma tricolore compresa) alla mercè del branco di iene di sinistra che alla fine si troverà a rosicchiare solo ossa putrefatte.