Le tasse potrebbero tornare a salire
Meloni, il decretone è diventato decretino: si può dare di più
Tanto tuonò che piovve, recita un antico adagio attribuito addirittura a Socrate. Che poi di questi tempi la pioggia è apprezzabilissima. Allargandone un po’ il significato originario, potrebbe essere il titolo del tanto atteso decreto Lavoro che il governo ha voluto approvare in pompa magna il Primo maggio “in onore dei lavoratori”. E rivendicando, con tanto di video in “piano sequenza” e un filo autocelebrativo della premier, “di aver fatto il più grande taglio di tasse degli ultimi decenni. Cosa di cui vado molto orgogliosa”. Un investimento di quattro miliardi, tutti quelli disponibili grazie a una crescita del pil nei primi tre mesi più alta del previsto (0,5 invece di 0,1%).
Se ci fosse stata una conferenza stampa – promessa ma poi saltata – avremmo avuto modo di farci spiegare qualcosa di più e meglio dalla premier Meloni. È ovvio che i video social non sono sufficienti. Specie se poi arrivano uno appresso all’altro – Meloni e poi Salvini con il controcanto di Conte – e fanno a gara nel celebrarsi di più.
Più che un decreto è un decretino. Che vorrebbe fare la cosa giusta – tagliare le tasse – ma lo fa poco e male. Con il condimento di molta propaganda. Partiamo dal punto forte del decreto: il taglio delle tasse. “Fino a cento euro in busta paga in più ogni mese”. è la stima della premier e del Mef che, per spiegare, si affidano a percentuali di massima: taglio delle tasse fino al 6% per stipendi fino a 25 mila euro; fino al 7% per stipendi fino a 35 mila euro. “A cui sommiamo – ha aggiunto Meloni – il taglio del 2-3% previsto dalla legge di bilancio” e che, occorre aggiungere, è la proroga per dodici mesi del taglio già deciso dal governo Draghi. Per essere chiari: se il governo Meloni non avesse confermato la misura, le tasse sarebbero aumentate.
Ora il punto è che questo ottimismo dei numeri non regge la verifica dei fatti, come è stato dimostrato ieri nell’audizione del viceministro economico Maurizio Leo davanti alle Commissioni riunite Bilancio-Finanze. A chi gli chiedeva se potesse confermare la previsione del taglio, e quindi di un aumento effettivo, “fino a cento euro al mese” in base al reddito – sarebbe, in effetti, un taglio consistente, circa 1200 euro in un anno- il viceministro ha fatto fatica a mettere insieme i numeri. Il motivo è presto detto. Immaginiamo una pagina divisa in due. Da una parte si mette il taglio previsto dalla legge di bilancio 2023 con un costo pari a 4,6 miliardi, durata 13 mesi, effetto in busta fino a 41 euro netti. Nell’altra metà pagina il taglio del decreto Primo maggio: costo 4 miliardi, mesi sei (anche se in un documento si parla di cinque), effetto in busta paga massimo 60 euro. Sessanta e non cento. Sommare, come ha fatto la premier, le due misure è un’illusione ottica: non si può fare perché il primo taglio è già assimilato dalle buste paga. Detto questo, l’ufficio studi di Banca d’Italia nelle audizioni sul Def aveva stimato che “3,6 miliardi investiti nel taglio del cuneo fiscale avrebbero portato un beneficio medio di 15 euro al mese”. L’analisi di Banca d’Italia è quella più affidabile. E tra 15 euro in media e 100 di massima c’è una bella differenza.
Scopriremo la verità quando il testo sarà pubblicato in Gazzetta Ufficiale. In ogni caso nella prossima legge di bilancio 2024, il governo dovrà avere a disposizione un tesoretto di una decina di miliardi solo per mantenere i tagli già attivi nel 2023. Altrimenti a gennaio prossimo le tasse aumentano. E sarebbe un disastro.
In merito poi all’affermazione della premier nel suo video promozionale “mai nessun governo aveva investito così tanto nel taglio delle tasse”, merita ricordare che gli 80 euro valevano 10 miliardi. E che la misura è diventata strutturale. Qui è ancora tutto a tempo.
Un altro punto grigio del decretino riguarda la fine del Reddito di cittadinanza. “Detto (in campagna elettorale, ndr) e fatto (una volta al governo, ndr)” è lo slogan della destra. Restano tutelate le circa 650mila famiglie con anziani, minori e disabili a carico: per loro non cambierà nulla. Gli altri 400mila abili al lavoro “avranno un incentivo di 350 euro mensili per fare corsi di formazione o servizio civile” a partire dal primo settembre. A parte che a luglio restano scoperti. E che magari qualcuno accetterà di andare a fare il cameriere o il bagnino (forza lavoro che oggi manca). Il punto è un altro: corsi di formazione per chi e cosa? Il decreto, sulla carta, avrebbe dovuto soddisfare un’altra emergenza: dare il via ad una piattaforma digitale in grado di mettere insieme domanda (servono circa quattro milioni di posti di lavoro nei prossimi tre anni) e offerta. L’uovo di Colombo, si dirà. Eppure non si riesce a fare. “E’ prevista nel testo e potremo procedere alla sua realizzazione solo dopo l’entrata in vigore del decreto”, spiegano fonti legate al dossier. Ancora rinvii.
Il decretone diventato decretino è stato utile alla fine a tenere lontani dai riflettori i veri problemi del governo: Mes, Pnrr e nuove regole del patto di Stabilità. Dei 19 miliardi della terza rata del Pnrr, ad esempio, non si hanno ancora notizie.
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