La tentazione sarebbe quella di crogiolarsi nel trionfo di Bacco ed Arianna e “chi vuole esser lieto, sia, di doman non c’è certezza.” Invece vale la pena cercare di capire come siamo arrivati all’inedito dell’Italia come paese più stabile d’Europa, dove la Presidente del consiglio è considerata (secondo la rivista Politico) la persona più potente del Continente. Ma soprattutto, nel giorno in cui si riuniscono gli Stati generali della nostra diplomazia, è nel nostro interesse cercare di capire cosa fare di questo tesoretto.
Il fattore comune
Sulle ragioni, al netto di complesse alchimie di politica interna in paesi come Francia e Germania, c’è un fattore comune abbastanza evidente. La crisi francese è stata scatenata dal risultato del Rassemblement national alle europee del giugno scorso, dove il partito di Marine Le Pen ha più che doppiato i rivali macronisti e socialisti. Quella tedesca, è anche (ma non solamente) dovuta alla crescita inesorabile di Alternative für Deutschland.
L’Italia è avanti tre decenni rispetto agli altri nel superare la conventio ad excludendum verso l’estrema destra populista. Tutte le esperienze di governo di centrodestra hanno dimostrato una formidabile compattezza di questo impianto, ora tramandato da una generazione di classi politiche all’altra. E se altrove il vento populista sta sparigliando gli assetti dello Stato profondo, in Italia siamo da tempo attrezzati (o alcuni direbbero assuefatti) a questo “new normal”. Poi c’è la congiuntura internazionale. Il governo italiano e Giorgia Meloni in particolare, sono stati abilissimi a praticare una politica estera dei due forni fra, da un lato, le forze tecnocratiche di casa a Bruxelles e negli ultimi quattro anni a Washington e, dall’altro, quelle a lei ideologicamente più affini in Ungheria e, fra poco, sempre a Washington. Con i primi, Meloni si è costruita gradualmente una credibilità grazie all’affidabilità nel sostegno all’Ucraina per poi portare l’Europa dalla sua parte, per esempio sui discutibili accordi migratori con Tunisia ed Egitto.
La vera domanda è quanto questa politica dei due forni possa durare. Storicamente è, come noto, rischiosissima. Basta leggere il terzo volume della saga “M.”, dove Antonio Scurati spiega con dovizia di particolari il fallimento di quella che l’allora Ministro degli Esteri Dino Grandi chiamava la politica del “peso determinante” e che ci porto inesorabilmente fra le braccia di Hitler.
Il bivio
È pressoché inevitabile che arriverà un momento dove Trump metterà l’Europa davanti ad un bivio: sul commercio, sull’ Ucraina, sulla regolamentazione dell’Intelligenza Artificiale. Per un certo periodo, il governo può puntare a farsi ponte ed interlocutore privilegiato. Ma arriverà il punto in cui dovrà scegliere da che parte stare. E qui si pone una scelta di campo, in politica estera e di visione del mondo, fra due opzioni opposte e radicali. La prima è la scelta ideologica. L’alleanza con l’Internazionale populista di Trump e Orban è quella con la quale Giorgia Meloni sarebbe più a suo agio. Lo abbiamo visto con l’invito e gli onori tributati al presidente anarco-liberista dell’Argentina Milei a Roma la scorsa settimana. Lo abbiamo soprattutto ascoltato nel breve discorso pronunciato da Meloni a New York a settembre alla consegna del Global Citizens Award. Un appello, condivisibile o meno, di rara potenza nel riconoscere e contrastare il declino della civiltà occidentale. A dispetto dei discorsi roboanti, però, la scelta ideologica produrrebbe una politica estera più isolazionista, di tipo transattivo e che scenderebbe a patti con le autocrazie orientali, di fatto accettando sfere di influenza a partire da quella russa in Europa orientale. La seconda opzione è quella che potremmo chiamare “geopolitica.” Ci è stato sempre detto che l’unificazione europea rinforzasse il multiculturalismo e la diversità cosmopolita. Ma gli sviluppi a Parigi, Berlino e a Bruxelles ci dicono chiaramente che il vento soffia dalla parte di Meloni per quanto riguarda i temi del conservatorismo identitario. La cosa davvero rivoluzionaria sarebbe allora di trasformare la “nazione” di cui Meloni si fa portavoce in Italia in una vera e propria “nazione europea.” Che difende e promuove gli interessi europei e, perché no, quelli della “civiltà europea.” Che mette a frutto il suo capitale politico per difendere l’Ucraina. E mette a fattore le risorse di Bruxelles per costruire un Piano Mattei europeo, che è l’unico vero modo per rilanciare davvero il nostro profilo in Africa.
L’opzione “ideologica” è la più ovvia e probabile. E come ha detto la stessa Meloni alla chiusura di Atreiju: “Non è politica estera ma politica interna”. La seconda opzione “geopolitica” sarebbe anch’essa fortemente radicata nell’elemento valoriale, ma rappresenterebbe un vero cambio di paradigma degno di un Paese fondatore dell’Europa unito. In ogni caso, tertium non datur e quando quest’Italia così credibile sarà costretta a dover scegliere da che parte stare, sarebbe bene ricordasse Voltaire (e l’Uomo Ragno): ad un potere grande, conseguono grandi responsabilità.