Agatha Christie, con consapevole saggezza, sosteneva che “un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”. E se applicassimo questo metro all’epilogo grottesco che sta assumendo la vicenda che ha portato alla liberazione di Najeem Osema Almasri Habish, non possiamo non cogliere alcune particolari sfumature che si addensano nell’intera vicenda e che conducono ad alcuni interrogativi obbligati. Per farlo, però, è necessario abbandonare le trincee della contesa politica e il ribollire di un conflitto “civile freddo”. Ma quello dello scontro diretto, successivo alla comunicazione urbi et orbi a mezzo social di Giorgia Meloni, è l’ultimo capitolo di una storia che può e deve essere ricostruita con un necessario raziocinio.

La strana mossa della Corte Penale Internazionale


Partiamo dal mandato di cattura emesso dalla Corte Penale il 18 gennaio – il giorno prima del suo arrivo in Italia, non dalla Libia ma dalla Germania – dando seguito a una richiesta della Procura presso la CPI datata 2 ottobre 2024. Almasri, capo della Polizia giudiziaria libica, è stato arrestato dalla Digos a Torino il 19 gennaio. E qui già sorge il primo legittimo interrogativo: se Almasri è così pericoloso come ritiene la Corte Penale Internazionale, e la Procura dell’Aja richiede di spiccare il mandato di cattura già il 2 ottobre, perché aspettare fino al 18 gennaio con tutti i rischi del caso? Soprattutto alla luce del fatto, anche qui incontrovertibile, che il libico è giunto sul suo europeo il 6 gennaio, girovagando indisturbato. Un sospetto sollevato dalla stessa presidente del Consiglio e che non può che trovare sostegno in chiunque sia scevro da forme di pregiudizio politico.

È una questione di sicurezza nazionale, la nostra, e ha indubbiamente a che fare anche con il rapporto che sussiste con il famigerato “memorandum” con la Libia – siglato dall’allora ministro dell’Interno Minniti – che impedì che sull’Italia si riversassero 250mila clandestini. Memorandum rinnovato da tutti i governi che si sono succeduti negli anni. Qui le ipotesi potrebbero essere molteplici, tra cui uno sgambetto della CPI all’Italia per aver dichiarato che non procederà all’arresto del premier israeliano Benjamin Netanyahu se dovesse trovarsi sul suolo italiano. Oppure a qualcuno non va giù la nuova politica estera italiana, soprattutto in Libia, dove un certo ritrovato dinamismo sta riportando la nostra posizione alla dimensione di un tempo. Dubbi che probabilmente rimarranno insoluti, ma che la dicono lunga sulle “trame” che possono essere intessute per raggiungere gli scopi prefissati. E si sa: gli organismi internazionali non sono estranei a “influenze”.

La reazione della magistratura italiana


Ovviamente la vicenda e le implicazioni “internazionali” potrebbero escludere l’interpretazione secondo cui il caso è uno strumento della guerra in corso tra l’esecutivo e la parte barricadera della magistratura, quella che non accetta la riforma Nordio e la separazione delle carriere. E anche qui le cose appaiono ben più complesse di come sono state raccontate. Partiamo innanzitutto dalla prima obiezione che è stata posta alla ricostruzione fornita da Meloni, ovvero che la Procura di Roma aveva l’obbligo di trasmettere gli “atti” e dunque di inviare non subito, ma “entro 15 giorni” anche la comunicazione agli indagati. Naturalmente “omessa ogni indagine”, in quanto non la Procura di Roma, ma il Tribunale dei ministri ha l’obbligo di fare le indagini.

 

La Procura di Roma poteva ritenere infondate le accuse? Poteva ritenere che non si configurassero in alcun modo le due ipotesi di reato avanzate nella denuncia? Poteva allegare la richiesta di archiviazione come già avvenuto. Ma poniamo il caso che ritenesse fondate entrambe le accuse, e consideriamo che è consentito un lasso di tempo di 15 giorni per la trasmissione degli atti e la “comunicazioni agli indagati”. Visto il “clima” rovente che si è respirato tra governo e magistratura, probabilmente attendere qualche giorno avrebbe evitato una così eclatante “coincidenza”. Finendo per annullare le informative in Parlamento di Nordio e Piantedosi.

Intanto i componenti del governo indagati hanno deciso di nominare congiuntamente l’avvocato Giulia Bongiorno quale difensore. Una scelta che pone in evidenza non solo la compattezza dell’esecutivo ma la comune linea difensiva, tanto giudiziaria quanto politica.

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Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi, amo la politica e mi piace raccontarla. Conservatore per vocazione. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito John Wayne.