Question time
Meloni, la presidente delle tasse. Boschi all’attacco: “Aumenti ovunque, non vi siete dimenticati di nessuno”
“Onorevole Meloni, lei ci ha appena confermato di essere il presidente del governo delle tasse. Le ha aumentate non solo ai coltivatori diretti e alle imprese agricole, ma anche sui prodotti igienici per le donne, ha raddoppiato l’Iva per il latte in polvere per i bambini, per i seggiolini, è andata a colpire le giovani coppie aumentando le tasse per l’acquisto della prima casa e quelle per i cervelli che rientrano in Italia. Addirittura per i transfrontalieri. Non vi siete dimenticati di nessuno”.
Maria Elena Boschi, capogruppo alla Camera di Italia Viva, scandisce bene le parole e in aula non vola un fiato. Nei banchi del governo la premier tiene la testa sui fogli. Nei banchi della Lega, alla parola transfrontalieri, si mettono le mani nei capelli. Il dossier (una tassa di duemila euro per la sanità a chi lavora in Svizzera, paga comunque le tasse in Italia dove fa ritorno ogni sera) è come mettere sale sulle ferite aperte.
Boschi continua: “Il problema è che queste tasse non le usate per i servizi ai cittadini, ma per aumentare gli staff a Palazzo Chigi. In generale, da quando siete al governo possiamo contare due concreti e specifici effetti: l’aumento delle tasse e degli sbarchi irregolari”. Colpiti e affondati. Boschi si può rimettere a sedere. Quella di Italia Viva era una delle dieci interrogazioni presentate ieri durante il question time riservato alla premier alla Camera. Ed è quella che ha fatto più male. In classifica seguono quello di Sinistra e Verdi sul conflitto a Gaza, quello della segretaria del Pd Elly Schlein sulla Sanità dove la premier è caduta in un clamoroso autogol (“Il tetto alla spesa per il personale sanitario è stato introdotto nel 2009 e oggi paghiamo una situazione stratificata negli ultimi quattordici anni”) visto che, ha ribattuto Schlein, “nel 2009 al governo c’era lei”.
Oramai sono vere e proprie linee di frattura che corrono lungo le pareti di una coalizione che a parole promette di arrivare in fondo alla legislatura. Quando poi a giugno si conteranno le schede nelle urne – specie se Giorgia Meloni dovesse decidere di candidarsi – è inevitabile che qualcuna di queste linee cominci a far filtrare acqua. E a minare la tenuta del governo. Martedì il voto sull’autonomia regionale è stato il festival dell’imbarazzo. Nell’aula del Senato erano presenti pochi leghisti (Salvini è arrivato solo per il voto finale) che, pur consapevoli del fatto che è stata approvata l’ennesima scatola vuota (senza il finanziamento dei Livelli essenziali delle prestazioni la legge non può camminare), hanno ringraziato gli alleati per aver onorato il Patto di maggioranza (nei fatti lo scambio tra la legge per l’autonomia cara alla Lega con la riforma costituzionale e l’introduzione del premierato cara a Meloni, nessuna delle due care a Forza Italia). Nei banchi del governo solo due ministri (Ciriani e Calderoli) e il vicepremier Salvini si è aggiunto alla fine. Possiamo dire che né Forza Italia né Fratelli d’Italia hanno voluto mettere la faccia su questa “storica riforma”. Dalla premier neppure mezzo commento.
Ieri la giornata è iniziata malissimo. In aula al Senato era in discussione il decreto per il nuovo invio di armi in Ucraina. La maggioranza ha votato finora sempre compatta a favore della proroga. Il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo però ha spiazzato tutti e ha presentato un ordine del giorno con cui impegna il governo “a sviluppare un percorso diplomatico al fine di perseguire una rapida soluzione del conflitto”. Mai, pur tra mille distinguo, la Lega era arrivata a mettere nero su bianco in modo così evidente la sua distanza dalla linea di governo sulla guerra in Ucraina. Tanto che i 5 Stelle promettono il loro appoggio. Toh chi si rivede: l’asse giallo-verde. Poi il dibattito di giornata porterà al ritiro e alla riformulazione molto più soft di quell’ordine del giorno.
Un pizzino esplicito per la premier. Che alle 15 alla Camera si trova a dover fronteggiare, non senza imbarazzo e tra molti sorrisini, analoga questione posta però da Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana che chiede “lo stop subito all’appoggio al governo di Bibi Netanyahu responsabile del massacro di Gaza”. Meno male che intanto la Lega ha cambiato il testo al Senato. Lo ha ammorbidito. Ma il danno è fatto. Cosa dirà Meloni al Consiglio europeo del primo febbraio? E al vertice Nato del giorno prima? E a Tokyo dove la premier andrà per il passaggio di consegne della presidenza G7? Poi è arrivata Maria Elena Boschi con il suo micidiale j’accuse sulle tasse. Più sottile, ma ugualmente affilato, l’onorevole Casasco di Forza Italia con la sua interrogazione sulle privatizzazioni. “Come sa, presidente, Forza Italia è il partito delle privatizzazioni. Le chiediamo però i criteri guida di questo importante dossier con cui il governo conta di incassare venti miliardi nei prossimi tre anni”. Si parla di cedere pacchetti azionari di Eni, Poste, Ferrovie, Rai Way. “Non è una svendita – ha precisato Meloni – e neppure una vendita, io la definisco soprattutto una razionalizzazione che riguarderà anche partecipate al 100 per cento dallo Stato. Dove lo Stato è necessario resta, dove lo è meno, cederà quote”. È a quel punto che Casasco ha ripreso la parola e ha dato un suggerimento: “Forza Italia le suggerisce di vendere prima di tutto le partecipate del trasporto pubblico e della raccolta rifiuti”. Che invece sono due intoccabili bacini di consenso. Con Giuseppe Conte finisce come sempre: lei gli rinfaccia il Superbonus, il capo dei 5 Stelle di aver accettato le condizioni capestro del nuovo Patto di stabilità. Finisce la seduta. Sottosegretario Mantovano, com’era la temperatura nei banchi del governo? Il sottosegretario è persona molto fair. E sorride: “Non ho fatto in tempo a misurarla”.
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