Il blitz libico di Giorgia Meloni ha riportato in cima all’agenda italiana il caos “calmo” del Paese nordafricano. Nella ex Jamahiriya di Muhammar Gheddafi, a dominare da ormai più di un decennio è un’instabile anarchia militare. Diversi centri di potere, diversi sponsor internazionali, interessi contrapposti. Un’area senza esclusione di colpi, in cui l’Italia è consapevole di dover giocare una partita difficile e soprattutto in cui si mescolano spesso squadre. Ma soprattutto un Paese in cui parlare con i diretti interessati a Tripoli o a Bengasi può essere certamente utile, ma spesso non risolutivo.

È oltre confine che bisogna guardare. E molte volte addirittura anche oltre l’area mediterranea. La scacchiera è complessa, e lo dimostra il semplice fatto che Meloni, sbarcata nella Tripoli del primo ministro del governo di unità nazionale Abdul Hamid Mohammed Dabaiba (e dove ha incontrato anche il presidente del Consiglio Presidenziale, Mohammed Yunis Ahmed Al-Menfi), è dovuta poi volare anche a est, in Cirenaica, per un faccia a faccia con il maresciallo Khalifa Haftar.

L’unico governo riconosciuto dalla comunità internazionale, quello di Dabaiba, evidentemente non basta come interlocutore per gestire il rapporto tra i due Paesi. E Palazzo Chigi, come spesso accade sul fronte africano, è dovuto scendere a patti con tutti. A Tripoli ha confermato gli accordi su sport, ricerca e salute, ha voluto rimarcare l’importanza del dossier-migranti sostenendo la sinergia con l’esecutivo di unità nazionale, ha ribadito gli interessi nei vari settori strategici, a partire da quello energetico. Ma è a Bengasi che la premier ha dovuto compiere un passaggio altrettanto necessario.

Parlando con chi non detiene solo il controllo dell’est, crocevia fondamentale per il Sahel, ma anche con colui che è a tutti gli effetti l’uomo di Mosca in Nord Africa. La partita libica, infatti, è grossa. Sul tavolo ci sono non solo le ormai fantomatiche elezioni nazionali, ma anche il tema del gas, del petrolio (nei giorni scorsi il presidente della National Oil Corporation libica ha incontrato sia l’ambasciatore d’Italia a Tripoli, Gianluca Alberini, che il collega francese, Mustafa Maharaj) e i traffici con gli altri Stati africani (in questi giorni, si sta consolidando soprattutto l’asse tra Algeria, Egitto e Tunisia). Un piatto ricco, anche per la sua posizione geografica, e che fa gola a tutti. Turchia e Qatar hanno affondato le loro radici nella parte occidentale.

La stessa dove l’Italia e i partner europei e d’Oltreoceano gestiscono i loro maggiori interessi e asset, e dove risiede l’unico governo riconosciuto. Ma a est, la questione è particolarmente complessa. E tutti sanno che la stabilità della Libia (o delle Libie come dicono alcuni esperti), passa anche per la Cirenaica. Ieri, una nota del Comando generale dell’Esercito nazionale libico di Haftar ha ricordato come “le due parti abbiano esplorato le possibilità di migliorare la cooperazione e il coordinamento tra le forze militari libiche e l’Italia”, e il “feldmaresciallo” di Bengasi ha sottolineato il ruolo indispensabile delle sue forze armate “nel mantenimento della sicurezza, della stabilità e della sovranità” del Paese.

Haftar, secondo la nota riportata dai media libici, ha poi voluto confermare “l’importanza di rafforzare il partenariato strategico tra Italia e Libia, compresa la continua cooperazione in materia di sicurezza” per arrivare anche alla riconciliazione nazionale. Ma le parole del generale devono essere messe a sistema con le influenze internazionali che subisce. E prima tra tutte quella del Cremlino. Vladimir Putin ha scelto da anni Haftar come suo partner strategico nel Paese dove regna il caos. E negli ultimi mesi, pure dopo la fine dell’esperienza della Wagner, la Russia ha continuato a blindare i rapporti militari con la regione libica.

A fine aprile, il locale Fawsal Media aveva rilanciato le notizie di un’intesa attività di navi cargo russe nel porto di Tobruk, sostenendo che si trattasse di carichi destinati non solo alle forze russe nella Libia orientale, ma anche a quelle presenti nel Sahel. Come ha scritto Defense News, l’est del Paese si è ormai cristallizzato come fondamentale hub di Mosca per i suoi asset nel cuore dell’Africa. E pur ritardando l’apertura del consolato russo a Bengasi (mentre ha riaperto a febbraio l’ambasciata russa a Tripoli), Mosca ha inviato più volte i suoi rappresentanti in Cirenaica. Per Putin è essenziale blindare il corridoio che unisce il Mediterraneo alla parte centrale del continente africano. Soprattutto ora che i suoi militari sono sbarcati in Niger formalizzando l’alleanza con la giunta golpista. L’Africa Corps di Mosca – erede dell’impero Wagner – ha ormai piena libertà di manovra nel Paese. E mentre gli Stati Uniti hanno iniziato il ritiro (nella stessa base dell’aeroporto di Niamey si sono incrociati i militari Usa e i consiglieri russi), l’unico contingente occidentale che al momento rimane in Niger è proprio quello italiano.