Bisogna saper perdere
Meloni perde per arroganza (e vola da Biden): il campo extralarge in Abruzzo fa paura
Vista con gli occhi dei junior partner, Forza Italia e Lega, una “lezione” a Giorgia Meloni addolcisce solo in parte l’amarezza della sconfitta. “Chissà se avrà capito la lezione e che non aiuta essere così arroganti”
Il deputato leghista pizzica nervoso qualche nocciolina al banco della buvette. Chiacchiera con una collega di Forza Italia. “Chissà se avrà capito la lezione, che non aiuta essere così arroganti…” dice lui. “Ho qualche dubbio” ribatte lei “l’unico che si è preso la colpa è Truzzu, lei non ha detto una parola e non la dirà, neppure stavolta”. L’oggetto del confronto è Giorgia Meloni. Qualche metro più in là, in Transatlantico, i deputati Fratelli passano dritto, non una parola. Sono nervosi, non parlano, figuriamoci se scherzano. Il capogruppo Foti celebra la liberazione degli ostaggi in Mali, “un altro successo del governo”. Bella notizia, vero, brava la nostra intelligence, ma oggi qui sembra un po’ lunare.
Si cerca Donzelli, chissà, in quanto capo dell’organizzazione del partito magari potrà, vorrà, essere un po’ più eloquente. Poi c’è Andrea Crippa, il braccio destro di Salvini, che spiega ai giornalisti perché la Lega “non è andata così male. Dovete sommare il 3,7% nostro con il 5,4% del Partito sardo d’azione (quelli di Solinas, per intendersi, ndr) con cui eravamo alleati alle politiche, fa 9,3 e vedete che non è così lontano…”.
Peccato che alle politiche del 2019 la Lega fece il 27,6% e alle politiche del 2022 il 6,3%. Un crollo inesorabile e verticale. Un altro leghista, che ai tempi del Conte 1 ha avuto incarichi di governo, è nei pressi, ascolta e ragiona: “Il progetto della Lega nazionale è fallito, è evidente ma ora non possiamo girare la macchina e tornare indietro, alla Lega nord…”. O almeno, “è difficile farlo con la stessa macchina”. Cioè, con lo stesso segretario. Si ritorna da Crippa che sorride alle illazioni sul voto disgiunto, grande protagonista in Sardegna: “Ma ora vi immaginate se qualcuno ha il potere di guidare il voto disgiunto su quattromila elettori? Per favore. Piuttosto, sui candidati, bisogna ascoltare il territorio, scegliere le persone, misurarle, valutare il loro operato e non fare imposizioni dall’alto”.
Il ragionamento successivo riguarda il terzo mandato per sindaci e governatori. “Non è facile trovare candidati giusti, se li abbiamo non si capisce perché non dobbiamo candidarli. Quante altre volte dobbiamo perdere prima di imparare la lezione”. Questo tema rimbalza anche dall’altra parte del Transatlantico dove si trovano i deputati Pd. “Un problema per volta, oggi godiamoci questa vittoria. Certo – osservano e sono in tre – piazzare un Presidente di Regione con il 7,8% per cento di voti, il due per cento in meno delle ultime regionali…”. La conclusione del ragionamento resta sospesa ma è abbastanza intuibile. Almeno per 24 ore. Poi si vedrà.
Forza Italia ha molti rimpianti: “Avremmo avuto a disposizione almeno un paio di candidati che sarebbero usciti vittoriosi. Ma non si poteva perché lei (Meloni, ndr) ha deciso che doveva essere Truzzu”. L’amarezza è appena addolcita dal pensiero se Giorgia Meloni avrà capito che con l’arroganza e l’arroccamento non si governa una coalizione. Frammenti dal Parlamento il giorno dopo la disfatta sarda. Se il vertice a tre Meloni, Salvini, Tajani riunito lunedì quando i risultati non erano ancora definitivi ha condiviso di tenere una linea di quasi indifferenza, della serie che in Sardegna è successo poco o nulla, tra i gruppi parlamentari si respira l’aria di una data di svolta. Vista con gli occhi dei junior partner, Forza Italia e Lega, una “lezione” a Giorgia Meloni addolcisce solo in parte l’amarezza della sconfitta e della consapevolezza che per loro al momento non ci sono alternative a restare al traino di Fratelli d’Italia.
Paolo Truzzu però sembra l’unico ad essersi assunto questa responsabilità. La nota ufficiale della maggioranza parla di “rammarico per il fatto che l’ottimo risultato delle liste (la cui somma stacca di 8 punti percentuali la somma del centrosinistra, ndr) non si sia tramutata anche in una vittoria per il candidato presidente”. Nessun calo di consensi, quindi “resta però una sconfitta su cui ragionare per imparare dalle nostre sconfitte così come dalle nostre vittorie”. La premier consegna ai social il fatto che “le liste di centrodestra risultano comunque le più votate”. Poi rimette la testa nei dossier di politica estera che continua ad essere il campo preferito.
Domani parte per Washington dove il primo marzo è attesa alla Casa Bianca dal presidente Joe Biden. Come se nulla fosse, quindi. Ma non è così. Ci sono le altre lezioni regionali: il 10 marzo va alle urne l’Abruzzo, in aprile il Molise dove ancora non c’è il candidato. In Piemonte (si vota a giugno) non ci dovrebbero essere problemi sulla conferma dell’uscente Cirio. Ma da ieri nulla viene più dato per scontato. Neppure in Abruzzo perché se l’uscente Marco Marsilio sulla carta non ha sulla carta problemi di sorta – ha ben governato ed è alto nei consensi a differenza di Truzzu – il campo veramente largo, da Italia viva a Sinistra e Verdi passando per i 5 Stelle che il candidato del centrosinistra Luciano D’Amico è riuscito a tenere insieme comincia a fare paura.
Matteo Salvini, che è passato dalla Sardegna all’Abruzzo in una campagna elettorale senza soluzione di continuità, scaccia via i brutti pensieri. “Possiamo prenderci subito la rivincita: qui ci solo due candidati e non c’’è voto disgiunto: o vince uno o vince l’altro. Secondo me qui vinciamo, e non di poco, con la Lega sopra il 10%”. Se il centrodestra, fin dall’inizio, è stato dato per favorito, gli ultimi sondaggi restituiscono però una situazione incerta. Marsilio resta il potenziale vincitore ma con una forbice sempre più stretta e assai più basso di D’Amico per quanto riguarda la fiducia personale. Una partita tutta da giocare. Due sconfitte su due farebbero vacillare anche una campionessa di autostima come Giorgia Meloni. Che intanto, tramite i fedelissimi, ha già fatto pervenire un no secco al terzo mandato. La Lega non ci sta. Ieri i governatori del nord, da Zaia a Fontana a Fedriga, hanno rimesso la questione sul tavolo. E non si possono aspettare giugno e le Europee.
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