In politica, anche in quella più manovrata, le posizioni nette e chiare sono spesso paganti. Allora sarebbe stato comprensibile e anche efficace il “no” della Meloni a Ursula von der Leyen, detto alto e forte, quando l’Italia è stata esclusa dalle trattative per i vertici massimi dell’Unione. Invece la presidente del Consiglio quell’esclusione prima l’ha denunciata ma poi se l’è incartata ed è andata avanti in trattative di tutti i tipi. Nel frattempo però Salvini e Orbán si sono mossi e lo hanno fatto in modo del tutto provocatorio e inaccettabile.

La Lega ha detto di “no” pregiudizialmente alla von der Leyen e – per non farsi mancare nulla – ha aderito anche al gruppo dei Patrioti, la quintessenza dell’estrema destra nel Parlamento europeo, gente che oscilla fra il filo-fascismo e il filo-putinismo. A sua volta Orbán ha utilizzato la carica assunta per rotazione di presidente del Consiglio europeo per incontrare Zelensky, e specialmente Putin e Xi Jinping per aprire trattative sull’Ucraina il cui termine non aveva concordato con nessuno a livello europeo.

Di fronte a questa serie di provocazioni, alla scelta di Tajani che aveva dichiarato di votare per Ursula, Meloni aveva tutte le ragioni per dare l’ok. Lo avrebbe fatto in nome di una posizione conservatrice distinta da quella dei socialisti, dei verdi e del PPE ma anche lontana da quella di Salvini e dei Patrioti. Un’occasione più unica che rara. Invece ha fatto esattamente il contrario con una serie di conseguenze negative: ad esempio ha fatto venir meno proprio la posizione del conservatorismo autonomo.

È inutile nascondersi dietro a un dito. O l’Unione europea si blinda attraverso una larga maggioranza su alcune questioni decisive per il presente e per il futuro (prime tra tutte l’Ucraina) oppure rischia di essere travolta e smantellata da una catena che da una posizione attualmente minoritaria all’interno dell’Ue si potrebbe saldare da un lato con Trump e dall’altro con Putin. In ballo c’era proprio questo e sarebbe stato molto importante per dimostrare la qualità politica della premier italiana e del suo stesso partito se avesse votato per la von del Leyen, motivando la sua scelta proprio in nome di una posizione conservatorista e atlantica. Invece la Meloni, di fronte all’offensiva di Salvini, non è stata capace di tenere il punto.

Va detto però che non è affatto vero che l’opposizione di centrosinistra italiana abbia tutte le carte in regola. Sul terreno delle grandi scelte geopolitiche il campo largo è tale perché contrassegnato dal massimo livello di ambiguità. Conte, il M5S e Il Fatto Quotidiano sono altrettanto putinisti. Lo stesso si può dire per una parte del Pd (come Cecilia Strada ma ancor più Tarquinio e altri pezzi ex articolo 5, vedi Stumpo e Scotto, per non parlare di Fratoianni e Bonelli) caratterizzata da un misto di pacifismo e di ambiguità sia nei confronti di Putin sia nei confronti di Hamas.

Fino a qualche tempo fa Giorgia Meloni ha seguito il metodo Draghi, assumendo posizioni assai nette proprio sul terreno dell’atlantismo. Con questo passo indietro il governo italiano si è collocato all’insegna dell’ambiguità. Non crediamo che tutto ciò sia funzionale al consenso. Ma comunque Meloni può durare altri tre anni solo se mantiene ferma una linea strategica di alto profilo. Esattamente il contrario di quello che ha fatto in questa vicenda assai delicata e importante.