Intervenendo in Parlamento in vista del Consiglio europeo di oggi, Giorgia Meloni ha ribadito il fermo impegno dell’Italia a sostenere l’Ucraina nella difesa della sua sovranità e integrità territoriale. Ottimo, se non fosse che il suo governo è l’unico del G7 contrario all’uso delle armi per colpire le postazioni russe dei missili che stanno devastando proprio quella integrità territoriale. Con il sostegno attivo di quasi tutte le forze di opposizione, va sottolineato. La verità è che la maggioranza delle classi dirigenti nazionali, per convinzione o per tornaconto elettorale, non ha o non vuole avere memoria storica, ed è vile anzitutto per questo motivo. Eppure gli esempi di una cecità politica dissennata non mancano. Il più clamoroso del “secolo breve” è certamente quello noto col nome di “tradimento di Monaco”.

Il precedente

Il 29 settembre 1938 Hitler incontrò a Monaco il premier inglese Neville Chamberlain, il primo ministro francese Édouard Daladier e Benito Mussolini. Il mattino seguente firmarono un accordo che permetteva all’esercito tedesco di completare l’occupazione della regione dei Sudeti. Gran Bretagna e Francia comunicarono al governo cecoslovacco che poteva resistere da solo all’invasione nazista o arrendersi e accettare l’accordo. Abbandonata dai suoi alleati, la Cecoslovacchia gettò la spugna rapidamente. Al loro ritorno in patria, Chamberlain e Daladier furono accolti da folle esultanti, convinte che fosse stato evitato un conflitto militare disastroso con il Terzo Reich e di avere placato le sue ambizioni egemoniche. Nel marzo del 1939 il Führer ruppe l’accordo annettendosi l’intera Boemia e la Moravia.

Nell’ottobre del 1939, Emmanuel Mounier pubblicò sulla rivista Esprit un saggio ristampato da Castelvecchi (“I cristiani e la pace”). Con una palese allusione a quel “tradimento” il filosofo cattolico scrive: “Questo pacifismo, nel settembre del 1938 non aveva a cuore la giustizia dei Sudeti, né quella dei Cechi, né quella dei Trattati, né quella delle loro vittime, né l’ingiustizia della guerra, ma aveva una sola ossessione: che non si interrompessero i suoi sogni di pensionato. […] La pace è compromessa non solo dai guerrafondai ma anche dagli imbelli […]. È forse questo il comportamento che si addice ai fedeli di una religione la cui pietra angolare è costituita da un Dio fattosi uomo sulla terra?”. Sono parole nobili, espressione di un “realismo cristiano” sideralmente distante da una melmosa e miserabile realpolitik.

Dimenticavo: a fine maggio 1940, la Germania stava vincendo la guerra e Hitler attendeva con calma la resa dell’Inghilterra. Dopo la disfatta di Dunkerque, sembrava avere le ore contate. Il resto del mondo taceva, con l’Urss in disparte, gli Stati Uniti lontani, l’Italia e il Giappone in agguato. Il grande storico americano John Lukacs ha spiegato perché il Führer non sferrò subito il colpo di grazia all’esercito britannico: attendeva l’esito del confronto, nel partito conservatore, tra il ministro degli Esteri Edward Halifax, Neville Chamberlain – il premier che Winston Churchill aveva sostituito dopo l’occupazione nazista della Norvegia – e lo stesso Churchill (“Cinque giorni a Londra”, Corbaccio, 2001). Halifax e Chamberlain erano favorevoli alla ricerca di una soluzione diplomatica del conflitto che permettesse un accordo di pace con il Terzo Reich.

Churchill, invece, era contrario a ogni ipotesi di appeasement con i tedeschi. Il 28 maggio, quando giunse la notizia che il Belgio si era arreso, dichiarò, mettendo al tappeto i suoi nemici interni: “La nostra unica speranza è la vittoria, o noi cesseremo di essere uno Stato”. Con questa granitica convinzione morale e politica pronunciò i “greatest speeches”, i grandi discorsi che animarono la resistenza contro il nazismo fino alla sua sconfitta. Non c’è dubbio che l’Europa e il mondo intero debbano essere più grati all’eminente statista, che condusse il Regno Unito alla vittoria contro le potenze dell’Asse, che a un politico imbelle come Chamberlain o a uno snob cacadubbi come lord Halifax.