La gestione dei flussi migratori è il grande punto interrogativo della politica estera di Giorgia Meloni. Dall’inizio della campagna elettorale, e poi con l’inizio del mandato, la premier ha puntato sulla necessità di fermare l’arrivo di migliaia di persone sulle coste italiane. Da presidente del Consiglio lo ha fatto promuovendo una diplomazia particolarmente attiva basata su diverse direttrici.

La prima è il puntare sui rapporti bilaterali con i Paesi di transito. La seconda: concentrarsi sulle relazioni con i maggiori partner europei nel tentativo di convincere gli altri governi che quello dei flussi sia un tema continentale e non solo dei Paesi del Mediterraneo. Terza direttrice è stata quella di non dimenticare l’aspetto degli equilibri africani, in particolare dei Paesi di origine dei flussi migratori, con quell’ancora vago Piano Mattei che ha obiettivi certamente ambiziosi ma anche estremamente velleitari. Infine, un altro binario è quello di rafforzare le relazioni con gli Stati più influenti sulla regione.

Un ultimo esempio è stato quello del recente viaggio del ministro degli Esteri Antonio Tajani negli Emirati Arabi Uniti, descritti dallo stesso capo della Farnesina come «un partner cruciale» per la stabilità nel Mediterraneo e «fermamente impegnati» a promuovere «un approccio globale alle migrazioni, combattendo i flussi irregolari e il traffico di esseri umani». I risultati di questa politica estera dedicata alla tratta di esseri umani sembrano però ancora parecchio lontani. Mentre gli arrivi, come dimostrato dal boom in primavera, non sembrano destinati a ridursi. La realtà del Mare Nostrum sembra infatti ben più complessa delle aspettative.

Escluso ormai in modo palese qualsiasi tentativo di riparlare di “blocco navale” – obiettivo che era apparso anche a molti esperti del settore come un’ipotesi esclusivamente elettorale ma non realizzabile – Meloni si trova infatti a fronteggiare una situazione incandescente su tutti i fronti. Su quello libico, uno dei grandi “buchi neri” del Nord Africa, l’incontro con il generale Haftar, uomo forte della Cirenaica ma non riconosciuto dalla comunità internazionale, ha reso evidente come Palazzo Chigi debba interloquire anche con il leader dell’Esercito nazionale libico. E questo nonostante l’unico governo riconosciuto sia quello di Tripoli e nonostante Haftar abbia ormai dimostrato di non essere più l’unico “dominus” dell’area orientale del Paese. La tragedia di Pylos, del resto, con il barcone partito proprio dall’area di Tobruk, conferma che la rete di trafficanti è molto più radicata delle capacità di controllo del “maresciallo”.

Sul fronte tunisino, al netto dei ripetuti viaggi del governo italiano, si rischia di rimanere in un pericoloso limbo. Il leader Kais Saied ha già risposto in modo netto al Fondo monetario internazionale sulle richieste di riforme per sbloccare il prestito che darebbe ossigeno alla propria economia. Tajani ne ha discusso a Washington, cercando evitare che Ue e Fmi lascino spazio alla linea dell’intransigenza. Ma pur se l’Europa è consapevole dei rischi, la strada della stabilizzazione di Tunisi sembra in salita.

Intanto, a intervenire su questo fronte è stata anche la Francia. Il ministro dell’Interno, Gerald Darmanin, colui che aveva fatto infuriare il governo per le accuse rivolte a Meloni, ha annunciato un accordo di 26 milioni di euro con Tunisi «dedicato alle questioni migratorie». Gli aiuti, ha spiegato il ministro, serviranno a «contenere il flusso irregolare dei migranti e a favorirne il rientro in buone condizioni». E Darmanin, non certo a caso, ha anche teso la mano a Saied, rilanciando il fatto che il suo Paese non ha come «vocazione» quella di essere la «guardia di frontiera» dell’Unione europea. Un ruolo che per Darmanin spetta ai Paesi di partenza.

Il segnale è importante, perché conferma come Parigi inizi a mettere in campo le sue contromosse per far capire che non intende abdicare alla propria influenza su Tunisi. E non è forse un caso che questa missione franco-tedesca in Tunisia arrivi prima che Emmanuel Macron riceva Meloni all’Eliseo. Per far passare il messaggio che la gestione dell’immigrazione sia un tema europeo, Meloni sa di doversi rivolgere proprio a uno dei leader più avversati, cioè Macron. Perché paradossalmente è proprio dall’Eliseo che può aspettarsi un aiuto su questo fronte (e lo conferma l’attacco di Marine Le Pen a Meloni sull’intesa riguardo i flussi).

Il sostegno francese, infatti, è necessario per far passare alcune riforme o intese volute dall’Italia, che si scontra invece con il muro dei Paesi del Nord e dell’Est Europa. Se l’interesse del governo italiano – come dimostrato nell’ultimo patto Ue – è la solidarietà tra Paesi membri, è chiaro che l’attenzione non può che rivolgersi verso i governi meno duri sul tema. E la prova è arrivata proprio nell’ultimo Patto Ue sulle migrazioni. A voltare le spalle all’Italia sono stati i governi più vicini ideologicamente al governo: Polonia e Ungheria.