Oggi, entro un intervallo di 5 punti percentuali, si collocano nei primi posti dei sondaggi 4 partiti: Lega, PD, FdI e M5S. Ciascuno di essi, nell’ipotesi di presentarsi da solo alle politiche col sistema elettorale attuale, ha minori chances di conquistare dei collegi uninominali, che sono peraltro decisivi per ottenere una maggioranza di seggi in parlamento. Ne consegue che l’opzione più ragionevole sarebbe quella del formarsi di una alleanza dei partiti di centrodestra in competizione con una possibile alleanza fra quelli di centrosinistra. Ma è una scelta difficile perché i protagonisti dei rispettivi schieramenti dovrebbero mettersi d’accordo sui candidati da presentare nei collegi sulla base di complesse alchimie legate a nominativi possibili e a sondaggi, più o meno affidabili, sul peso relativo dei partiti della coalizione.

Questa premessa è necessaria per capire alcune importanti difficoltà che tormentano oggi la politica italiana e, in particolare, ciò che sta accadendo nei rapporti fra i partiti all’ombra del governo Draghi. Cominciamo con il centrodestra. Come è ormai noto, c’è in questo momento per la Lega la paura del sorpasso da parte di FdI, magari già in occasione delle prossime elezioni amministrative, che sono da molti politici considerate come una sorta di primarie per le elezioni politiche che invece verranno, probabilmente tra molto tempo: è infatti ragionevole supporre che l’attuale Parlamento ponga molte resistenze a sciogliersi prima della scadenza naturale, visto che anche molti parlamentari sanno che sarà impossibile essere rieletti e, forse prosaicamente, tengono a maturare per intero i benefici pensionistici. Anche se Salvini preme, per ora (ma non sempre convintamente) perché le consultazioni politiche abbiano luogo il più presto possibile. In futuro potrebbe cambiare idea se la presenza al Governo – e il possibile successo di Draghi – gli portasse consenso e danneggiasse la sua vera rivale attuale, la Meloni, che è rimasta fuori dall’esecutivo.

Riguardo a quest’ultima, come si sa, ogni sondaggio sulle intenzioni di voto testimonia (nella misura in cui si può dare affidamento ai voti virtuali espressi rispondendo ai quesiti posti nelle ricerche) la crescita continua dei consensi per Fratelli d’Italia. Il partito della Meloni ha superato da tempo il M5S e, negli ultimi giorni, ha scavalcato anche il PD, avviandosi, sembrerebbe, a competere con la Lega, che rimane (per ora?) il primo partito italiano. A cosa si deve questo grande successo? Le prime analisi suggeriscono che esso va ricondotto soprattutto alla leader del partito, Giorgia Meloni. Ciò che gli elettori premiano, infatti, non sembrerebbe in primo luogo il posizionamento politico di FDI, che, come si sa, rappresenta l’unica forza di opposizione al governo Draghi. Agli italiani l’esecutivo guidato dall’ex presidente della BCE piace molto, tanto che i livelli di approvazione continuano ad essere elevati. E la stessa Meloni, in fondo, non fa, nella sua comunicazione, una polemica eccessiva – e mai con toni altisonanti – contro il governo in carica.

Ciò che attira l’elettorato verso la Meloni non è dunque tanto la sua posizione politica, quanto il personaggio stesso. La Meloni è riuscita a proporsi con un’immagine “nuova” tra i politici italiani. Decisa, ma mai urlante, ha saputo abilmente cancellare il ricordo delle sue origini nettamente più estremiste. Al punto di candidarsi al governo del Paese come una persona seria e in qualche modo “moderata”. Essa appare dunque all’elettorato come un serio leader politico per l’intera destra. Tenendo conto che l’atteggiamento talvolta troppo “irruente” di Salvini non piace a tutti e che Berlusconi sembra a molti messo in un angolo a causa dei suoi problemi di salute. Insomma, la Meloni rappresenta per molti il “nuovo” nel centrodestra. Come si sa, l’elettorato italiano, in tutte le sue componenti, abbandonate le identificazioni ideologiche tradizionali, appare, ormai da tanti anni, incessantemente alla ricerca di un personaggio politico “nuovo” e diverso dai precedenti. È successo tanto tempo fa per Berlusconi e, mutatis mutandis e in altre collocazioni politiche, per Renzi e Grillo. Ora è la volta della Meloni.

Ciò suggerisce che FdI possa proseguire la sua crescita, continuando a sottrarre voti alla Lega, ma drenando consensi anche da altre forze politiche, non ultimo il M5S, ormai in disfacimento. Oltre che, naturalmente, attirando chi si è astenuto di fronte alla mancanza di una proposta di centrodestra unitaria. Questo progredire di consensi non significa tuttavia necessariamente che la Meloni possa realizzare il suo sogno di governare un giorno l’Italia. Proprio il fatto che la popolarità sia da attribuire soprattutto a lei e non al suo partito rappresenta un limite, anche dal punto di vista organizzativo e di presenza sul territorio. Così come lo sono le sue posizioni talvolta tiepide verso l’Europa.

Dunque, il centrodestra appare in questo momento caratterizzato soprattutto dal duello Meloni-Salvini. E dalla difficoltà di una eventuale coalizione elettorale. Esaminando la situazione nel centrosinistra, troviamo, sempre dal punto di vista delle possibili coalizioni, una situazione più complicata. L’alleanza strategica Bettiniana, ripresa prima da Zingaretti e ora anche da Letta, risulta sempre più una ipotesi che fa i conti senza l’oste. Che in questo caso è il M5S. Le amministrative dell’autunno dovevano essere la prova generale dell’alleanza, che però pare non funzionare, nemmeno tatticamente. E a sentire quello che dicono un po’ di grillini nemmeno al secondo turno. Conte può dire quello che vuole, ma per il momento parla per sé stesso. L’alleanza strategica è rimandata e Letta per ora deve limitarsi a tenere insieme il suo partito piuttosto che la “piazza grande”, visto che a Roma Calenda potrebbe anche essere colui che elimina Gualtieri dal ballottaggio.

Il PD scopre dunque, in zona Cesarini, che il M5S non è un alleato affidabile. La realtà è che Conte ha venduto l’uccello quando era ancora sull’albero. Nonostante la sua notevole popolarità, l’ex Presidente del Consiglio rimane sin qui un soggetto estraneo al Movimento. Per una parte degli eletti, quelli che vogliono restare in politica, è una possibile àncora di salvataggio, perché non ne hanno un’altra. Ma per molti, gli eletti più numerosi e senza futuro, e per non si sa quanti elettori, il suo schierarsi, anche se con esitante chiarezza, dalla parte della sinistra non piace. Conte fa dell’equilibrismo politico che può essergli utile, ma crea disordine nel PD dove c’è tensione fra l’ala indebolita dell’alleanza strategica e quella di chi l’alleanza con i 5S e ora con Conte la vede solo come un sacrificio temporaneo per provare a battere la destra sovranista.

Il compito di Letta a questo punto è particolarmente difficile. Non ha alternative ad una alleanza con Conte a legge elettorale ferma, perché nei collegi uninominali se il PD e il partito di Conte vanno separati la destra stravince. Però questa alleanza è non solo infida, ma può rivelarsi comunque perdente. Come è noto, in base ai sondaggi, Conte è ancora il personaggio politico più popolare in Italia (Draghi lo è di più, ma non è candidato), ma non è chiarissimo quanti elettori lo seguiranno nella sua battaglia basata su una alleanza inevitabilmente da partner subordinato rispetto al PD. Il disfacimento del M5S e la difficile OPA di Conte su quello che resta di esso rischia di condannare il PD all’opposizione una volta giunto al termine il governo Draghi.

Per provare a trovare una via d’uscita si ricomincia a parlare di cambiare la legge elettorale e quindi la struttura dell’offerta politica e la retorica della campagna elettorale. In senso proporzionale. Sicché alle elezioni politiche ciascuno andrebbe da solo davanti al corpo elettorale prospettando la possibilità di uscirne vincitore. Mentre dopo le elezioni comincerebbero i negoziati fra partiti per formare maggioranze sulle quali gli elettori non si sono espressi.
Ma dovrebbe essere un proporzionale assoluto e non a doppio turno eventuale con possibilità di coalizioni al primo ed al secondo turno, se il primo non dovesse bastare. Come si sa, le leggi elettorali strutturano l’offerta politica. Nel caso di una legge che permette coalizioni e un premio di maggioranza alla forza politica che raggiunge una certa soglia già al primo turno, l’incentivo a coalizzarsi è fortissimo e quindi il PD dovrebbe in ogni modo allearsi con i 5S, che certo non hanno più la forza per fare un terzo polo come era accaduto nel 2018.

A supporre, in via del tutto ipotetica, che la coalizione di centro sinistra vinca le elezioni, una alleanza con un partner così poco affidabile come i 5S rischierebbe di produrre una coalizione che vince ma non ce la fa a governare. Un governo in via di ipotesi stabile ma impotente. Tutto questo fa pensare che (a meno di un cambiamento radicale nelle opzioni al riguardo da parte della Lega) la legge elettorale non sarà modificata. La maggior parte degli osservatori pensa infatti che, data la grande difficoltà a trovare degli accordi sul tema, probabilmente si andrà a votare con la attuale normativa Rosato. Che, come si sa, comporta un terzo di seggi uninominali, per conquistare i quali è ragionevole che i partiti si alleino fra di loro per provare a vincere scegliendo un candidato comune da proporre agli elettori. Di conseguenza, ci toccherà ancora per diversi mesi seguire le agitazioni della morte e possibile resurrezione del M5S e quelle del destino della “alleanza strategica” che, se da una parte si è inceppata, dall’altra non sembra avere alternative.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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