Perché scegliamo di ricordare certi eventi mentre altri li dimentichiamo? È una vecchia domanda logorata dalla psicanalisi. Pensiamo alle storie personali che abbiamo alle spalle: pare sempre forte la tentazione di concepirle alla maniera di un nostro esclusivo possedimento, quasi fossero il colore degli occhi, la qualità del sorriso. E invece la famiglia, felice o infelice che sia, lungi dal porsi quale evento naturale, è un’invenzione della storia, uno dei nuclei primari e tuttavia fungibili della nostra civiltà: potrebbe essere questo il succo prezioso di Memoria della memoria (Bompiani, pp.457, traduzione di Emanuela Bonacorsi, 22 euro), composto da Marija Stepanova con la pazienza certosina della ricercatrice e una notevole grazia stilistica. Scoprire le genealogie per lei significa entrare in una dimensione corale uscendo dall’atrofia soggettiva: tocchi la radice di una pianta e ti accorgi che questa s’intreccia con molte altre. Non siamo soli al mondo, anche se a volte saremmo spinti a pensare il contrario: Jared Diamond nel classico Armi, acciaio e malattie, uscito nel 1997, che molti hanno riletto in questi mesi sulla nuova onda epidemica, ce lo raccontò con sagacia narrativa e precisione scientifica.

Allo stesso modo la tradizione di un singolo essere umano non è mai solo sua: nel momento in cui la interpelli, smuovi l’intera struttura. Sembra fondamentale capire cosa vogliamo trovare nel calderone indifferenziato della storia trascorsa, sapendo che optare per questo o per quello produce conseguenze talvolta incontrollabili. Il compito di chi scrive appare profondamente connesso a questa coscienza collettiva. Per fare un solo esempio: la sala dedicata alle storie del Museo ebraico di Berlino dove vengono conservate fotografie di bambini, tazze e violini, inghiottiti nella tragedia della Shoah, non riguarda soltanto loro, ma ognuno di noi, specialmente quando ci troviamo coinvolti nell’azione di ripristino dei contatti interrotti a causa di forza maggiore: guerre e violenze, ma anche semplicemente il trascorrere rovinoso e trionfante del tempo sulle imprese umane.  «D’altra parte il fardello della post-memoria», dichiara Stepanova, nata a Mosca nel 1972, «ricade sulle spalle dei figli: la seconda e terza generazione di chi è sopravvissuto e si è concesso di volgere gli occhi al passato».

E così a contare, in questo lungo viaggio all’indietro, con gli occhi rivolti al futuro, non sono tanto i tasselli tematici relativi ai padri, ai nonni e alle bisnonne, che evocano vicende belliche soprattutto russe attraverso la messa in scena di lettere e descrizioni fotografiche, diari e riflessioni, quanto il sentimento di smagata disillusione nei confronti di qualsiasi intento ricostruttivo. Tutto, prima o poi, si perderà, compresa l’idea stessa della conservazione: dall’Ecclesiaste alla manzoniana biblioteca di Don Ferrante, la bibliografia al riguardo è infinita. I quadri citati dalla Stepanova rivelano il senso di ciò che stiamo dicendo: le facce del Davide con la testa di Golia di Michelangelo Caravaggio, visibili nel Kunsthistorisches Museum di Vienna, dimostrano «che non c’è differenza tra vincitore e vinto». L’Incendio nella foresta di Piero di Cosimo, assomiglia a un’esplosione apocalittica originaria o finale: «La catastrofe, a quanto pare, può essere l’istanza generatrice, o è una fornace in cui le figure di argilla si induriscono o un calderone per trasmutazioni».

Ecco allora in quale senso il gesto di custodia e protezione che la letteratura, malgrado ciò, s’incarica di realizzare diventa eticamente rilevante: le scatole magiche e i filmini di Joseph Cornell, l’artista americano che fece scattare in piedi il giovane Salvator Dalì, sconcertato dal ritrovare in certi fotogrammi il proprio carattere più intimo; gli autoritratti di Rembrandt, nei quali si vede in azione “il lavoro della morte”; la titanica impresa proustiana e i pappagalli di Giambattista Tiepolo affrescati nella residenza di Würzburg e miracolosamente scampati ai bombardamenti della Luftwaffe. Ma è chiaro che lo scrittore di riferimento più importante presente in quest’opera per molti versi drammatica ed epigonica resta Winfried Georg Sebald, al quale la Stepanova rende esplicito omaggio soprattutto nel mirato confronto con Primo Levi: inutile distinguere fra sommersi e salvati, afferma l’autrice, essendo gli uni e gli altri destinati a sparire: «Dunque non serve scegliere, e ogni cosa, ogni sorte, ogni persona e ogni insegna merita di essere ricordata, di scintillare ancora nella luce prima del buio finale».

Conclusione che, in evocazione di alcuni versi di Paul Celan, ci propone una verità azzardata e rischiosa in quanto aperta a possibili equivoci legati alla paralisi cui ci potrebbe consegnare tale invocata lungimiranza, ricollocando il romanzo contemporaneo nei registri sapienziali criptonovecenteschi di muta iscrizione tombale nei quali è spesso sprofondato. Il libro si configura alla maniera di un sepolcreto («come se il volume e il vissuto degli altri e il loro numero fossero più di quanto possa essere tenuto a mente»): che è insieme la sua forza e la sua fragilità.