Un romanzo su come il denaro condiziona i sentimenti
“Memorie di un infedele”: il capitalismo tra condanna e redenzione

La letteratura può aiutare la politica? Sì, a patto di non volerne estrarre un utile immediato. Nessun romanzo ci darà indicazioni su chi votare. Né i classici sono di destra o di sinistra, caro ministro Sangiuliano, tutt’al più si può definire “di destra” una appropriazione così maldestra e anticulturale come la Sua. Però un romanzo può mostrarci le conseguenze del capitalismo sulla nostra vita affettiva e sessuale, sul nostro immaginario e sulla nostra ricerca di senso. Questo si propone, dichiarando subito le sue smisurate ambizioni, Memorie di un infedele di Sebastiano Nata (Bompiani). Insieme ad altri libri dell’autore potrebbe comporre una Comedie humaine del nostro tempo, il tentativo di raccontare il nesso tra capitalismo e mente umana, tra il denaro e i sogni, tra economia e produzione simbolica.
Come sappiamo il capitalismo non è solo un modo di produrre, ma come osservò l’economista Karl Polany un sistema culturale dove il calcolo mercantile si sovrappone a tutte le cose che non siano merci. Oggi hanno mercantilizzato davvero tutto: perfino l’autostop è diventato Blablacar! All’inizio del capitalismo si pensava di adoperare l’avidità di guadagno, il desiderio acquisitivo per ammansire le altre passioni distruttive, ma invece si è rivelata la passione più distruttiva Nata, che in una pagina tra le più memorabili ci ricorda che il capitalismo è amorale ma non anaffettivo, poiché si alimenta continuamente della passione di far soldi, si mostra all’altezza delle sue ambizioni? In larga parte sì, solo con un rischio, forse inevitabile.
Protagonista è Tommaso Alfieri, top manager di successo che ha passato la vita a dimostrare al padre, primario carismatico, di non essere un buono a nulla, ha accumulato nella sua esperienza nella azienda Transpay – con abilità e spregiudicatezza – una ricchezza considerevole (a volte si paragona a san Francesco, che pure secondo il padre cominciò la decadenza della famiglia). Ha messo su famiglia, con tre figli, anche se ha “trascorso l’esistenza lontano dagli altri e da ogni forma di consapevolezza”, e la famiglia stessa è stata solo una parziale eccezione a questo senso angoscioso di irrealtà. Quando è depresso gli tira su il morale vedere il conto corrente lievitare. Una scena che fa pensare all’inferno dei viventi. È convinto che “quando c’è di mezzo la grana bisogna sempre negoziare al meglio” (esige sempre lo sconto!). Si identifica totalmente con il suo ruolo: è spietato e ipercompetitivo. Però è anche un sincero credente. Roso da continui rimorsi aiuta una zingara che chiede l’elemosina (e la sua bimba) – figura dell’alterità (dissipazione e anti-progetto) – dando loro una sistemazione e prendendosi cura della scuola della figlia. Apprende di avere un tumore alla prostata, segue delle cure, un po’ si rassegna a morire o meglio si prepara alla morte, ricordando suo padre che diceva che quando moriamo la pena dei nostri familiari, quella vera, dura un paio di settimane.
Tommaso, che non riesce ad avere una relazione stabile, ha sempre “tradito” tutti, un po’ come la zingara dell’elemosina. Ma questa è precisamente la quintessenza del capitalismo odierno – appunto “flessibile” -: non ci sono vincoli né identità rigide. Tutto è fluido. Per avere successo devi essere sleale. Senza volerlo perfino la fluidità sessuale, che nasce come idea emancipativa, un po’ riflette questa flessibilità del capitalismo attuale, metamorfico e dionisiaco! Nata non è uno scrittore espressionista, non decostruisce la sintassi né deforma il lessico. È un narratore lineare ed educatissimo, ma anche rigoroso: pur “intrattenendo” il lettore rinuncia a certi effetti speciali alla Sandro Veronesi (digressioni brillanti, leggende metropolitane…). Qual è il rischio del romanzo cui accennavo? Forse il fatto che sia raccontato in prima persona. A quel punto sia l’autore che il lettore non possono che identificarsi con lui, l’io narrante, e dunque interiorizzarne anche ogni autogiustificazione. Fatalmente Tommaso, artista della mediazione e abile seduttore, tende ad assolversi. Chi non lo farebbe? Profondamente cattolico, pensa che Dio perdona tutti, anche i peccatori. Giusto. Ma forse non dovrebbe dirselo. Proprio Gesù ha intimato: “Chi vuole conservare la propria vita la perderà…”.
Tommaso assolvendosi la intende conservare, dunque potrebbe perderla. Dio è “amichevole”, certo, però anche imperscrutabile, infinitamente distante: la sua “giustizia” è per noi inesplicabile (come la provvidenza per Manzoni). Da un romanzo che mette al suo centro il Vangelo, ovvero il libro più estremista e vertiginoso dell’antichità, insieme fraterno e impervio, mi aspettavo un finale spiazzante: Tommaso che a Natale accoglie figli e nipoti annunciandogli che non gli lascerà un euro e che devolverà tutto in beneficenza (esponendosi in ciò alla possibilità di un loro rifiuto). Invece il romanzo non radicalizza il conflitto: punta invece su un percorso di redenzione del protagonista attraverso la presa di coscienza della sua impostura e il recupero degli affetti più cari. Nata ha dimostrato, dal suo romanzo di esordio (Il dipendente, 1995), di essere il migliore e più affilato cronista dell’universo aziendale nell’economia postfordista, la “estensione del dominio della lotta”, per citare il primo romanzo di Houellebecq. Fa letteratura con gli slogan delle multinazionali: gli indigenti vengono definiti alla Transpay “consumatori alla base della piramide”.
Ma il suo italianissimo cattolicesimo rifugge da ogni radicalità: il capitalismo è feroce, il denaro corrompe tutto ciò che tocca, eppure anche l’esistenza più desolata può essere toccata dalla Buona Novella. Tommaso si sente guasto ma quando guarda la Pietà Rondanini, con Gesù e la Madonna a grandezza naturale che, fragili e smarriti, si sostengono a vicenda, capisce che il messaggio cristiano è lì, ad altezza d’uomo, per tutti i peccatori gettati nell’universo, che vi si smarriscono. Un messaggio di speranza, un po’ deprivato del senso del tragico ma capace di consolarci più che “atterrarci”. La scena in cui il nipotino Giovanni si nasconde dentro le lenzuola del nonno dopo l’operazione, dentro la “capanna magica”, è un diorama dell’esistenza visto attraverso la meraviglia di un bambino. La nostra “salvezza”, che può giungere anche in ritardo, non è altro che ritrovare quella meraviglia.
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