Rilanciare la partecipazione
Meno pallone e più politica, solo così si può dare una scossa al Paese
Pare che Sir Winston Churchill abbia sostenuto: «Italians lose wars as if they were football matches, and football matches as if they were wars». Sulla autenticità di tale affermazione, segnalatami da un caro amico liberale di sinistra di stanza a Londra, nutro qualche perplessità, ma rimane plausibile, e affascinante, per l’efficacia epistemologica e per l’assonanza con la schietta ruvidezza analitica del British Bulldog. Sintetizza magicamente il mondo valoriale e la cultura politica degli italiani. Per la stragrande maggioranza dei cittadini italiani la politica è qualcosa di alieno, di infimo, da cui stare lontano, lezzoso e ozioso allo stesso tempo. Frutto di compromesso, male assoluto in sé per i ciarlatani da bar che tutto sanno e risolvono nel tempo di un caffè.
Gli italiani, dunque, tutto drammi epici per una partita e indifferenza per il bene comune. Che comunque viene dopo, qualcos’altro, la famiglia, la cerchia di amici, sé stessi. Anni fa Sabino Cassese diede alle stampe un bellissimo testo, L’Italia: una società senza Stato? (Il Mulino, 2001) appunto. Una costruzione recente, le cui articolazioni territoriali sono deboli, la burocrazia infìda, l’amministrazione traballante, l’ossatura weberiana carente sebbene pervicacemente irriformabile “gabbia”. E lo Stato dai cittadini distante, poiché essi ne sono inconsapevoli. Per esserlo bisognerebbe informarsi, formarsi.
L’Istat certifica regolarmente quanto leggano poco gli italiani. Quasi il 60% “non ha letto libri nel 2018” tra le persone con più di 6 anni che non hanno letto per motivi strettamente scolastici o professionali. E gli uomini che non hanno mai letto un libro per un intero anno sono più delle donne, quest’ultime lettrici voraci più degli uomini (46% contro 35%, con le giovani donne lettrici più affezionate in assoluto). Inoltre, il 10% delle famiglie non ha nemmeno un libro in casa (!). E questo spiega tante cose. Le librerie chiudono e aprono zone aperitivo, con schermo per partita di calcio all the time. Inoltre, bene ribadirlo, circa il 30% degli italiani è analfabeta funzionale (fonte OCSE), ossia non riesce a sintetizzare e a comprendere il significato di un breve paragrafo appena letto. Facile dunque per i partiti populisti propagare in una prateria di inconsapevolezza civica.
L’ignoranza genera mostri, ma anche distorsione; prova ne è la percezione del numero di persone non italiane (cosiddetti immigrati) presenti sul territorio nazionale: per quasi i due terzi la quota è doppia o addirittura tripla rispetto a quella reale, ossia l’8% (dati Eurispes). Lo stesso accade all’identificazione del “primo problema”, sovente indicato tra quelli legati alla “sicurezza”, al mondo delle paure, ovviamente insieme ad aspetti congiunturali quali l’economia o la disoccupazione. Per non parlare della fiducia dei cittadini verso le istituzioni: le organizzazioni collettive sono oltre la decima posizione con livelli di consenso attorno al 20% per lo Stato, i sindacati, gli imprenditori, con solo due figure (di cui una non italiana, ossia il Papa, e il Presidente della Repubblica) sopra il 50% di quanti dichiarano “molta” o “abbastanza” fiducia (dati Demos, 2019).
E quindi, stante queste condizioni cognitive, arriva la “casta”, che in Italia come notorio non esiste. È solo una invenzione saggistica ripetuta acriticamente da un paio di lustri come un jingle. L’apogeo dell’individualismo rancoroso, beota, insulso e improduttivo. La conferma che l’altro non va bene, meglio la dimensione clanica, il piccolo gruppo rassicurante. Le quasi sette, dai social network al quartiere di residenza, al club di calcio. Resta, come lascito dei tempi andati e vituperati, una buona partecipazione elettorale, che è la forma più banale di partecipazione politica (vedasi il recente referendum costituzionale), una croce ogni 5 anni (o meno) non si nega a nessuno, soprattutto se è un compare di preferenze a chiederla.
E poi dei momenti di mobilitazione, eccezionali, nei momenti topici. Chi declama le “primarie” del Partito Democratico, ad esempio, non sottolinea abbastanza che si tratta sempre più di un sub campione, di una forza minoritaria, appunto. Agile addomesticare un popolo sì composto nutrendolo di paure costruite: l’altro da sé, l’immigrato, lo “straniero”. Che però a furia di “prima X” arriverà alla lotta tra condòmini perché il razzismo, o meglio la xenofobia si nutre di paure ancestrali che si arrestano sulla soglia della propria porta di casa (o di calcio), moderno simulacro dell’antica caverna, ormai un po’ taverna.
E come distrazione di massa il calcio, il “pallone”, in cui il fideismo trionfa. Facile rinviare al panem et circences, ma meglio richiamare Karl Marx, e fare riferimento al nuovo oppio dei popoli. Ormai sedotti, e spesso abbandonati o bidonati, da imberbi adoni alla modica cifra di qualche milione di euro. Di cui il popolo, fiero, si fa carico, anche con argomentazioni dotte, ché i costi stellari di tal o talaltro sono giustificati dall’azienda privata, derubricati come fatto privato del patron (rieccoci) del club. Non come i politici, quelli sì, dei parassiti. Alcuni spiragli si intravedono, seppur in un contesto di diminuita partecipazione politica rispetto agli ultimi tre decenni almeno. Una componente importante di giovani e giovanissimi si è attivata per i “Fridays for Future”, e in generale su tematiche legate all’ambiente e alla sostenibilità del modello economico. Molta partecipazione elettorale giovanile, peraltro differenziata in termini di opzione di voto, si è palesata in occasione del referendum costituzionale di settembre. Inoltre, una quota di cittadini è stata ri-mobilitata da movimenti per i diritti delle donne nonché su tematiche legate all’immigrazione e taluni movimenti come le “Sardine” hanno ri-attivato canali di partecipazione in precedenza disillusi e divisi in rivoli.
Rimane il tema relativo a come intercettare chi non partecipa, chi non hai mai partecipato ovvero chi è uscito dal circuito di coinvolgimento civico. Per definire una strategia di coinvolgimento il primo passo da compiere è relativo alla conoscenza di quanti non partecipano e alle motivazioni sottese a tale “scelta”. In linea generale, i fattori che influenzano le decisioni di chi non partecipa possono essere riassunte in tre macro categorie: 1) non vuole partecipare; 2) non può partecipare; 3) nessuno gli ha chiesto di partecipare. Questa tripartizione proposta da Sidney Verba (e i suoi collaboratori) apre scenari e strategie differenziate a seconda della finalità che ci si pone per “catturare” nuova partecipazione. Nel primo caso – “coloro che non vogliono partecipare” – le possibilità di intervento sono modeste e limitate al lungo periodo e agli effetti generati da politiche pubbliche di “educazione civica”.
Viceversa, nel secondo e terzo caso – “non può partecipare” e “nessuno gli ha chiesto di partecipare” – si delineano spazi molto interessanti in termini di mercato potenziale per la partecipazione elettorale, quella politica e financo per quella partitica. A patto che gli attori politici, e in particolare i partiti, decidano di investire risorse materiali, cognitive e organizzative sulla partecipazione politica. Se è vero che una quota rilevante di cittadini non partecipa “perché nessuno glielo ha chiesto”, è plausibile ritenere che se i partiti – in particolare quelli di sinistra – aggiungessero alla agenda di policies anche un’azione di “educazione politica” ne trarrebbero certamente beneficio. E, forse con qualche sorpresa, almeno per loro, attrarrebbero alcune migliaia di iscritti e persino di attivisti.
Certamente non basta soltanto chiedere, bisogna “sapere cosa chiedere”, come chiederlo e cosa proporre. I partiti progressisti potrebbero partire dal ri-mobilitare i “propri” elettori, quelli “usciti”, ossia che hanno abbandonato sbattendo la porta e stracciando le “tessere” di appartenenza. Molti cittadini aspettano un “segnale”, politico, ideale e simbolico che riattivi il circuito partecipativo con incentivi identitari in grado di fare esprimere la voglia latente di partecipazione politica. Inoltre, sul versante dei “nuovi” partecipanti, i partiti – al pari dei sindacati – dovrebbero intercettare le esigenze di rappresentanza che molti cittadini, soprattutto giovani, lavoratori e donne, meriterebbero e che in qualche misura si attendono.
C’è un “mercato partecipativo” sotterraneo che almeno in parte sarebbe disposto a entrare nel circuito politico-partitico. A patto che vi sia un interlocutore collettivo capace di rappresentarne le istanze di modernità, rispetto dei diritti civili e politici, cambiamento economico. Se invece di seguire così tanto il calcio, una quota maggiore di italiani si informasse di più, leggendo, iscrivendosi a un partito, a un sindacato, a una associazione, prendendo parte alla vita politica, la società italiana ne trarrebbe gran beneficio. L’iniezione di una dose massiccia di partecipazione politica sarebbe una scossa salutare. E il Paese vincerebbe la partita più importante, quella dello sviluppo e darebbe una bella risposta a Sir Winston Churchill. Viceversa, non c’è che da accontentarsi del solito: inizia la prossima partita, di calcio.
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